Quissi degliu Mulone

Da un racconto di Mario Tupone e inserti di Maria Spera - Roberto Tupone - 01 settembre 2016

Era il 1842, un anno in cui non successe nulla di importante, se non che Alessandro Manzoni completò i Promessi sposi.

La domenica del 4 settembre, alle otto del mattino, un giovane contadino di quindici anni, a cui il padre Giovanni aveva messo lo sventurato nome di Lazzaro, trovandosi a passare davanti alla chiesa di Sant'Anatolia, rinvenne un neonato.

Giovanni Federici, nato il 13 dicembre 1792 da Baldassarre e Domenica Lanciotti, nel 1817 aveva sposato Annasiena Luce, dalla quale aveva avuto quattro figli: Antonio, Domenica, Baldassarre e Lazzaro. Poi nel 1832 era morta Annasiena e lui, l'anno dopo, aveva risposato Maria Fracassi. Da questo secondo matrimonio erano nati Lucia e Francesco e, due giorni dopo il ritrovamento del neonato, nascerà l'ultimo figlio Andrea, che diventerà un gigante e verrà soprannominato «Andreone». Baldassarre invece, di tre anni più grande di Lazzaro, anche lui un gigante, sarà  colui che, circa venti anni dopo, verrà accusato di essere un «brigante».

Il ragazzo si affrettò a chiamare l'eremita della parrocchia, un tale Giovanni, ciociaro, a cui affidò il neonato.

Giovanni D'Alfonso, sessantaquattrenne, era nato a Castelluccio di Sora, oggi Castelliri, il 18 aprile del 1778. Nel 1812 aveva sposato a Monticchio (AQ) Rosa Carofalo dalla quale aveva avuto tre figli, ma due femmine erano morte in fasce, e gli era sopravvissuto solo il maschio Pasquale. Giovanni faceva il calzolaio a Monticchio, ma poi ad un certo punto, dopo che nel 1820 gli era morta la seconda figlia, si era trasferito a Sant'Anatolia a fare il mestiere dell'«eremita». Non sappiamo esattamente quando e perché. Forse si trasferì nel 1835 quando il figlio Pasquale prese in moglie Pasqua Rosa Luce di Sant'Anatolia, ma possiamo anche ipotizzare l'inverso e cioè che, trovandosi già lì con la famiglia, il figlio abbia avuto l'opportunità di conoscere la futura moglie. Rosa, la moglie di Giovanni D'Alfonso, morirà a Sant'Anatolia nel 1844 e undici anni dopo nel 1855, quando don Gaetano Carletti, il vescovo di Rieti, verrà a far visita a S. Anatolia, Giovanni sarà ancora lì a fare l'«eremita».

Quando Giovanni vide arrivare Lazzaro, prese il neonato tra le braccia e lo affidò alla moglie Rosa. Poi mise al corrente sia il parroco don Pietro Placidi che l'eletto di Sant'Anatolia Giovanni Candido Amanzi, ufficiale dello stato civile, che, alle ore sedici, iscriverà il neonato nel registro dell'anagrafe e, siccome era domenica, lo chiamerà Domenicantonio. Testimoni in quest'atto furono Gabriele Piccinelli, detto Gabrielone, e  Croce Fracassi.

Qualche giorni dopo, il 10 settembre il parroco battezzerà il bambino con il solo nome di Domenico. Per cognome venne scelto Sabatini, che era il cognome che a Sant'Anatolia si dava ai trovatelli, l'equivalente di Esposito dei trovatelli di Napoli o Proietti di quelli di Roma.

Dal sacerdote verrà designata, quale madrina per il battesimo, Irene Pozzi, vedova di Marco Fracassi.

Marco Fracassi, nato a Marano nel 1761, aveva 26 anni più di Irene ed era morto due anni prima, nel 1840. In verità Irene lo aveva abbandonato già dal 1830, preferendogli il vedovo Nicola Amanzi di nove anni più grande di lei. Il povero Marco, per la vergogna, dapprima si era rifugiato a Castelmenardo, dove aveva vissuto facendo il garzone, poi era andato via ed era morto in un luogo imprecisato nello stato pontificio. Irene farà da madrina solamente una seconda volta, per un'altra bambina figlia di padre ignoto. Si vede che, abituata a fare scelte un po' fuori dalle righe, era tra le poche capaci di affrontare situazioni più complesse. Irene aveva avuto tre figli da Marco.

Domenicantonio Sabatini all'inizio verrà allevato direttamente dai sacerdoti o dalla famiglia dell'eremita e in seguito, forse nel 1844 alla morte di Rosa, verrà adottato dalla famiglia di Matteo Passalacqua e Marta Chiara Peduzzi, i quali avevano due figli piccoli, Angelo (1839) e Angela Rosa Aniceta (1841). Domenicantonio con questa adozione acquisirà il cognome Passalacqua ma inspiegabilmente, alcuni suoi nipoti erediteranno il vecchio cognome, altri il nuovo. Qualche anno dopo la nuova famiglia si allargherà con altri tre fratellini, Giovanni Romualdo (1849-1863), Domenica (1852) e Antonio Passalacqua.

Il 20 settembre del 1867 Caterina Pozzi, figlia di Santo e Domenica Luce, ebbe un figlio da padre ignoto, che registrò con il nome di Francesco Antonio Pozzi.

Santo Pozzi era nato a Sant'Anatolia il 18 dicembre del 1795. Il suo nome era tanto appropriato per lui che ben quarantasei famiglie lo scelsero per far da padrino ai loro figli. Insomma era benvoluto da tutto il paese e per questo lo chiamavano «Santarello». Ebbe undici figli e visse fino al 1873. Caterina, nata il 20 maggio del 1842, era l'undicesima figlia.

Domenicantonio Sabatini o Passalacqua decise di sposare Caterina e di riconoscere per suo il figlio Francesco, che prese il cognome Sabatini. Domenicantonio venne soprannominato «gliu mulone», forse perché non era stato capace di avere figli suoi, e aveva dovuto adottarne uno di padre ignoto, ma questa è solamente una supposizione, perché in realtà è probabile che Domenicantonio fosse stato il vero padre di Francesco. In seguito, l'8 marzo del 1869 ebbe da Caterina un secondo figlio, Berardino, registrato con il cognome Passalacqua.

Francesco Antonio Pozzi o Sabatini, nel 1894 sposerà Genoveffa Frezzini dalla quale avrà tre figli, tutti purtroppo morti in fasce.

Nel 1891 Berardino sposò Benedetta Cruciani (1868-1922) dalla quale ebbe Giovanna (1892), Amerigo (1895-1916), Anatolia (1898), Antonio (1900), Cesare (1904) e Giuseppe.

Alla morte della moglie Berardino sposerà, il 24 gennaio 1925, Concetta Sgrilletti (nata 1896) più giovane di lui di ventisette anni, anch'ella vedova del defunto Luigi Sgrilletti, morto due anni prima. Concetta, alla morte di Berardino, il 22 giugno del 1939, sposerà un uomo di nove anni più giovane di lei, Angelo Sgrilletti detto «Angelucciu gliu scarparo», ma con nessuno di loro avrà figli. Anche lei verrà da tutti ricordata con il nome «Concetta degliu mulone».

Quissi degliu mulone, cioè Domenicantonio, Berardino e i figli di Berardino, sembra che di mestiere facessero i muratori, ma si guadagnarono la fama di essere ladri, imbroglioni e grandi burloni. Abitavano in via dell'addolorata, sotto la casa di «Giggio degliu sonne». Erano così particolari che si era sparsa la voce che non fossero di Sant'Anatolia, ma che provenissero da luoghi lontani, come la Sicilia. In effetti circolavano delle storie sulle loro gesta, che erano diventate delle vere e proprie barzellette.

Alla festa di Sant'Anatolia erano molte le persone che accorrevano dai paesi del circondario richiamate dal fervore religioso e dalla voglia di passare una piacevole e allegra giornata. C'era la fiera del bestiame, dell'aglio e delle cipolle, e le bancarelle erano ripiene di oggetti più o meno utili e interessanti. In una bancarella dove si vendevano conche, cotturi, stoviglie e altri oggetti di rame, una signora aveva appena fatto un acquisto e, poggiato l'oggetto a terra, si accingeva a pagarlo. Domenicantonio gliu mulone, con sicurezza e disinvoltura, prese la «cottorella» e se la mise in testa. La signora, dopo aver pagato si girò e non trovandola, si guardò attorno con aria afflitta, e Domenicantonio gli chiese: «Signò cosa le è successo?» e lei: «la cottorella mè, la so appena cumprata, se troveva qui, qualcuno me l'ha presa !» e cominciò a lamentarsi. Allora Domenicantonio che aveva ancora la stoviglia in testa gli disse: «èh signora mia, se avevi fatto comme me, e te ll'eri messa in coccia, vedevi che non te la rubbevano...».

Un giorno «gliu mulone» andò a Roma e entrò in un negozio di ottica chiedendo di poter provare gli occhiali da vista. Il negoziante, cominciò a tirar fuori varie paia di occhiali e lui li provava, ma ogni volta con esito negativo. Dopo vari tentativi andati a vuoto, il negoziante si accorse che ogni volta che Domenicantonio metteva gli occhiali chiudeva gli occhi e poi diceva di non vederci. Il negoziante allora gli chiese di aprirli altrimenti come poteva vederci? E lui rispose: «Eh, se ci debbo vedè cogli occhi mè allora a che me servono gli occhiali ?». E nel frattempo, in tutto quel trambusto, un paio di occhiali era finito nelle sue tasche.

Dopo tante ruberie e imbrogli, uno dei Panei si decise a denunciarlo. L'udienza si doveva svolgere a Avezzano (oppure a Borgocollefegato) e la mattina, il signor Panei andò alla sua casa dicendogli: «forza, sbrigati che dovemme i agliu processo!». E lui: «eh, non ci pozze venì, perchè sende friddu e non tengo a'cappa». «Eh, se quisto è u'problema... te gliu tenghe io u'cappotte» disse Panei e gli prestò il cappotto e andarono al processo. Durante l'udienza il signor Panei raccontò dei vari furti fatti ai suoi danni «dagliu mulone» e, quando giunse il momento per questo di parlare disse: «Signor giudice... stai a crede a quisto ? Quest'uomo... è capace di dire... che questo cappotto è suoooo !» e il Panei: «E' ? Certo che è miooo!...» e «gliu mulone»: «Lo sentite signor giudice... Lo vede che dico la verità !». E il giudice lo assolse.

Di tanto in tanto venivano i missionari in processione a Sant'Anatolia ed era usanza in quei giorni di confessarsi. Probabilmente ci si sentiva più liberi di parlare ai missionari che erano estranei, piuttosto che ai sacerdoti che in genere erano di Sant'Anatolia o dei paesi adiacenti. Questi erano maggiormente coinvolti, anche per legami di parentela, con le vittime delle malefatte. I missionari cercavano di convincere «i peccatori» a ripagare il danno alle vittime, e se la vittima era già morta, di ripagare facendo opere di bene. Fu così che uno «de quissi degliu mulone» decise di costruire due rifugi per i pellegrini che venivano a visitare il santuario di Sant'Anatolia cosicché, in caso di temporale, potessero avere un luogo dove rifugiarsi. Costruì quindi due cappelline dette «cunette», una in località «Urbi morte» per i viandanti che provenivano dal versante di Torano e l'altra a «agliu campu, a mostatico, a capo mostatico, vicino la fonte di mostatico» per quelli provenienti dal versante di Corvaro.

Probabilmente i due edifici furono fatti costruire da Domenicantonio «gliu mulone» e non dai figli. Maria Spera ricorda che il padre Pietrantonio, nato nel 1886, non ricordava quando fu eretta la cunetta e quindi doveva essere stata costruita prima della sua nascita oppure quando era troppo piccolo per ricordare, forse nel ventennio 1870-1890. La «cunetta di mostatico» non esiste più. Altri rifugi per pellegrini, che non hanno attinenza con questa storia, erano probabilmente il casaletto simile alla «cunetta» che si trovava vicino l'ingresso del paese, nella zona chiamata «Sagnuanni» (San Giovanni) e la grotta naturale di Sant'Anatolia situata nei pressi di «colle pezzuto».

Purtroppo, il fervore religioso di Domenicantonio o di Berardino, il figlio degliu mulone, non bastò a cancellare l'esempio dato ai figli e alcuni nipoti continuarono con i dispetti, i furti e le «malefatte». Tanto fu l'odio che si tirarono dietro che alla fine i paesani organizzarono una squadra, guidata dai Panei, e: «i cacciaro fori, riuniru u paese de Sant'Anatolia e tira, e tira i sassi in gima agliu tittu, e se nne dovevano reì ! Li hanno cacciati fore ! E questi se ne andarono tutti quanti, chi a na parte chi a n'atra... Remase Berardino che s'era ripigliata Concetta, e poi se morse Berardino e Concetta se ripigliò Angeluccio u scarparo».

Attorno al 1925 uno dei figli di Berardino organizzò insieme ad altri un furto nella banca di Francia. Avevano studiato tutto, avevano scavato i cunicoli, avevano le auto pronte. Il colpo riuscì benissimo. Poi però, nella via del ritorno, ebbero un incidente. Misero sotto una vecchia e l'ammazzarono, e per questo vennero catturati e arrestati. In seguito il figlio di Berardino venne condannato a morte. Prima dell'esecuzione gli chiesero: «Vo morì senza magnà o magnenne?». E lui rispose: «No, io voglie magnà! e voglie magnà bone, prima de morì» e allora dopo una buona cena l'hanno ghigliottinato. «Tutti lo raccontavano al paese, tutti !».

Qualche decennio dopo Mario Tupone «zisittu» conobbe Cesare Passalacqua (n. 1904), uno dei figli di Berardino, che era tornato a Sant'Anatolia per sbrigare delle pratiche. Cesare era amico degli scarpari, dei Macioci. Abitava a Roma e aveva una bella figlia che era sposata con un banchiere, stavano bene. Dopo aver preso confidenza, questi chiese a Mario se poteva fargli un favore: «Me recacceresti la fedina penale? u' cosu giudiziario...», e questi rispose: «comme no? perchè non te gliu pozze fa ?». Mario andò a Borgocollefegato, gli fece un certificato di nascita e lo diede ad Amerigo, un fattorino che andava sempre avanti e indietro tra Borgo e Rieti, incaricandolo a fare il certificato del casellario giudiziario. Quando questi tornò disse: «Tupo' fregate ! Tu si che le te guardate bene le spalle, disse ! Guarda un po' questo ?». «Erano tre fogli protocollo tutti pieni di sentenze e condanne, omicidi, rapine, questo e quest'altro...». Ma erano cose accadute in un periodo ormai passato. Cesare donò tutti i suoi beni, le terre, la casa, ad Angelo Scafati, «Angelo d'Aguccio», non si sa per quale motivo. Poi non se ne seppe più nulla.

Uno dei figli di Berardino si fece onore e cadde nella prima guerra mondiale. Il suo nome si trova scolpito nell'epigrafe alla memoria dei caduti posta sulla facciata del Santuario di Sant'Anatolia. E' ricordato nell'Albo d'oro dei caduti 1915-18 con queste parole: «Amerigo Sabatini. Soldato 142° reggimento fanteria, nato il 24 novembre 1895 a Borgocollefegato, distretto militare di Aquila, disperso il 9 marzo 1916 sul Monte Fortino in combattimento».