I Saraceni e la Marsica

di Nicola Cariello - Tratto da: http://www.romamedioevale.it

Mondo cristiano e mondo musulmano

Per spiegare la presenza dei Saraceni in Italia inevitabilmente occorre partire dalla predicazione di Maometto, al quale si deve la fondazione di una religione e soprattutto la creazione di un nuovo Stato. Dal VII secolo gli Arabi, galvanizzati dalla fede nell’Islàm e presa coscienza della loro forza, cominciarono a diffondere la novella religiosa sia ad Oriente che ad Occidente, imponendo nello stesso tempo nuove forme di organizzazione politica e in generale la propria cultura, che comportava anche un’altra lingua ed un diverso atteggiamento nei confronti del mondo visibile e di quello invisibile.

Nel giro di due secoli la comunità dei credenti musulmani si era estesa dall’Asia all’Africa e nell’Europa meridionale tendeva a superare i confini dei due Imperi, quello franco-carolino ed il bizantino, che opponevano comunque una tenace resistenza. In Sicilia, Spagna e Puglia si erano già costituiti degli emirati, che presentavano una regolare organizzazione politica, dove iniziava a fiorire un nuovo tipo di civiltà con caratteristiche specifiche che non avevano nulla da invidiare agli Stati cristiani. Anzi: nel campo umanistico ed in quello scientifico potevano già vantare personalità eccezionali (1).

Tra il mondo cristiano e quello musulmano si creò subito una specie di conflittualità permanente, temperata da episodi di tregue o temporanee alleanze nonché da scambi commerciali o rari rapporti amichevoli. Soprattutto turbolenta si presentava la situazione in quella specie di zona neutra segnata dai confini, non sempre precisi, tra gli Imperi cristiani e lo Stato musulmano. Dove la sorveglianza armata era più difficoltosa o pressocché impossibile, come in mare, pullulava un gran numero di avventurieri e predoni, dediti alle rapine o ad altri delitti per trarre il proprio profitto dovunque se ne presentasse l’occasione. Effettivamente provenivano da Paesi musulmani: tuttavia né erano inquadrati in formazioni regolari né, tanto meno, erano animati da zelo religioso. Non si prefiggevano, perciò, intenti di proselitismo o scopi politici; si trattava, in genere, di uomini che vivevano ai margini della società, alle cui regole si erano sottratti. Le loro avventure nelle nostre terre vengono ignorate, d’altronde, dagli stessi storici musulmani. Poiché, però, la concezione islamica distingueva il mondo abitato tra dār al-islām (casa dell’islàm) e dār al-harb (casa della guerra), cioè tra l’ecumene musulmano e quello non musulmano, contro il quale è lecito muovere guerra, essi si sentivano in diritto di guardare alla penisola italiana come a una preda bellica. Occorre aggiungere che in Italia queste bande trovarono spesso e volentieri accoglienza poiché fornivano arditi mercenari, i quali – tra un’incursione e l’altra – avevano modo di combattere o per un prìncipe italiano o per un emiro locale. La situazione politica nel nostro Sud consentì a queste frange estreme della grande ondata islamica di insinuarsi nella dinamica delle forze che si contrapponevano nel complesso groviglio degli affari italiani. La parte centro-settentrionale della penisola, infatti, rientrava nell’orbita di influenza dell’Impero Franco, il quale però a malapena riusciva a trattenere le spinte centrifughe al suo interno ed a contrastare le incursioni musulmane ai suoi confini. A sud coesistevano un gran numero di piccoli principati, come Napoli, Amalfi, Salerno, Capua, Benevento, che secondo le circostanze si spostavano tra le due sfere d’influenza, quella franca e quella bizantina, appoggiandosi però anche ai Musulmani. L’Impero bizantino in Italia, poi, si era ridotto alla Calabria ed alla Basilicata, mentre Puglia e Sicilia, come si è accennato, erano saldamente nelle mani dell’Islàm. In questo mosaico di Stati e staterelli i cosiddetti Saraceni trovavano modo di vivere e prosperare. La popolazione italiana, già purtroppo avvezza a subire da secoli le scorrerie di invasori provenienti dal nord o dall’est, aveva vaghe informazioni su questi nuovi barbari che arrivavano dal sud; che si chiamassero Saraceni, Agareni, Ismailiti o genericamente Pagani, poco importava (2). La maggior parte di loro, per la verità, erano Bérberi, vale a dire indigeni della zona nord-occidentale dell’Africa, che gli Arabi avevano invaso e ribattezzato Maghreb. Superficialmente islamizzati, questi individui, discendenti degli antichi Mauri, non sempre avevano accettato di buon grado tutti gli aspetti della civiltà araba, così come a suo tempo erano stati restìi a sottomettersi alla conquista romana o ad accogliere il cristianesimo. Portati piuttosto al nomadismo ed alla cultura del “bottino” come affermazione dell’identità individuale e tribale, ritenevano consona al loro modo di vita l’avventura bellica, che si doveva concludere con l’arricchimento a spese delle cose e delle persone. La parola “razzìa” deriva proprio dal termine di origine berbera “ghāziyya”.

Le conseguenze dell’impatto furono disastrose, in particolar modo nell’Italia centrale, dove all’epoca coesistevano il Patrimonium Petri ed il ducato di Spoleto. Entrambi facevano parte del territorio dell’Impero Franco, fondato da Carlo Magno all’inizio del IX secolo, ma presto smembrato dopo la sua morte. I nipoti del grande imperatore nell’843 a Verdun, pur attribuendo ad uno solo di loro, Lotario I, il titolo imperiale, di fatto si spartirono l’Impero in regni personali. L’Italia rientrava nei domini di Lotario (795-855), il quale la lasciò al figlio Ludovico II (825-875). A lui successe lo zio Carlo II il Calvo (823-877). L’ultimo della dinastia carolina a governare l’Italia fu Carlo III il Grosso (839-888): ma ormai i prìncipi locali, approfittando della cronica assenza degli imperatori dalla penisola, di fatto già da tempo governavano in modo indipendente. I Franchi, nella persona di Carlo Magno, avevano riconosciuto al pontefice romano un patrimonio territoriale che comprendeva di fatto la regione laziale (3) ed i successori del grande imperatore avevano sempre rispettato i domini ecclesiastici o Patrimonium Petri, come veniva definito. I papi, a loro volta, si erano sempre rivolti agli imperatori franchi per essere tutelati dalle ingerenze straniere, appellandosi a quel vincolo di carattere quasi familiare che aveva legato Carlo Magno al pontefice Leone III. Ma quando gli imperatori presero ad interessarsi sempre meno delle faccende italiane, il papato cominciò a sperimentare difficoltà sempre maggiori nel governo del territorio ecclesiastico. Il problema più urgente riguardava senz’altro la scomoda presenza dei Saraceni; ma pure i prìncipi italiani, segnatamente il duca di Spoleto, costituivano un vero e proprio assillo per il papato.

Per la verità, dopo la disfatta del re Desiderio e la fine dei Longobardi dell’Italia centro-settentrionale, il ducato di Spoleto, secondo i patti a suo tempo sottoscritti dal pontefice e dall’imperatore, era appartenuto al papato. Ma i sovrani franchi ben presto vi insediarono un loro rappresentante, in sostanza un funzionario imperiale devoto all’imperatore e incaricato di occuparsi anche della difesa del Patrimonio della Chiesa. I duchi franchi di Spoleto finirono con il costituire una dinastia e seppero inserirsi abilmente nella scena politica italiana, tanto che a poco a poco estesero i loro domini tra centro e sud, minacciando lo stesso Stato ecclesiastico. Nel territorio del ducato di Spoleto venne appunto compresa anche la Marsica, corrispondente a quella che dall’epoca di Diocleziano era diventata provincia Valeria. All’antica denominazione che alludeva alle zone un tempo abitate dal popolo dei Marsi, in epoca imperiale si era infatti sostituita una ripartizione amministrativa che prendeva invece il nome dalla via consolare. Il termine romano, comunque, rimase nell’uso a lungo, come si può notare nelle opere di papa Gregorio Magno (590-604) (4) e perfino in quelle di Gregorio di Catino, vissuto nella seconda metà del XII secolo (5); ma Leone Marsicano (1046-1115) nella Chronica Monasterii Casinensis ormai parla soltanto di Marsorum Comitatus e di Marsicana civitas. Oltre il nome, la regione marsicana mutava anche i suoi confini territoriali in relazione alle circostanze politiche. Nel IX secolo, vale a dire proprio ai tempi in cui le incursioni saracene si facevano più frequenti e violente, la provincia marsicana acquistava contemporaneamente una nuova dimensione geografica ed un diverso assetto politico. Quello che era stato un semplice gastaldato longobardo successivamente acquisito al ducato di Spoleto, si trasformava in contea, benché ancora nominalmente soggetta allo stesso ducato ed inoltre allargava i suoi confini. A sud la frontiera, alquanto variabile, passava per la valle di Roveto, che separava il ducato di Spoleto da quello di Benevento, una zona di grande importanza strategica, particolarmente esposta alle scorrerie dei Saraceni.

L'invasione saracena

“Culpis Christianorum cooperantibus, Paganorum multitudo, id est Agarenorum gens Italiam intravit, in tantum vero cessante militia Italorum crevit illorum potestas, ut a Traspido usque ad flumen Padum perpauce essent civitates, videlicet exceptis Roma et Ravenna, quas ipsi aut non destruerunt aut non suo dominio subiugarent”. Così il monaco Gregorio di Catino nella “Destructio monasterii Farfensis” (6), a modo suo, spiegava i motivi dell’invasione saracena. È vero, comunque, che ciò accadeva anche per colpa degli stessi Cristiani, come rilevava il cronista. Anzi: spesso più che di colpe si trattava di vera e propria connivenza e di accordi stretti tra cristiani e musulmani. Napoli, Amalfi, Salerno, Capua, Benevento, Gaeta offrivano ospitalità e ricetto alle bande dei predoni, che arrivavano dall’Africa, dalla Sicilia e fin da Creta, partecipando spesso e volentieri alle loro incursioni ed ovviamente alla spartizione del bottino. Le cronache dell’epoca e l’epistolario del pontefice Giovanni VIII (872-882), che più degli altri ebbe a cuore il problema, descrivono con vivezza di particolari gli avvenimenti.

“Pro dolor! Tot ac tantis circumdamur hinc inde periculis, ut tedeat nos etiam vivere ... Redacta est terra in solitudine et ablatis ab illa hominibus ferarum saltus effecta est … Ecce enim dominicarum ovium ab Agarenis, qui sunt filii fornicationis, necnon et ab his, qui solo sunt nomine Christiani, alie gladio trucidantur, alie fame pereunt, alie vero in predam et captivitatem ducuntur ...” (7). In questa enciclica rivolta a tutti i vescovi e gli arcivescovi del regno di Carlo il Calvo, così si esprimeva Giovanni VIII: “Quale disgrazia! Siamo oppressi da tanti e tali pericoli che perfino la vita si è fatta disgustosa … La terra si è trasformata in un deserto, gli uomini le sono stati strappati ed è diventata un pascolo per le bestie … Infatti le pecorelle del Signore sia dai Saraceni, figli del peccato, sia pure da quelli che solo di nome si dicono cristiani, vengono alcune trucidate, altre muoiono d’inedia, altre ancora vengono catturate e condotte in schiavitù …”. Il problema dei Saraceni era effettivamente legato, come si nota da questo accenno del pontefice, alle connivenze degli Italiani, in particolare meridionali, interessati alla tratta ed al commercio degli schiavi (turpis lucri commodo! come ammonisce in un’altra lettera il papa). La schiavitù, comunque, all’epoca, era pacificamente accettata sia dai Musulmani che dai Cristiani ed il relativo traffico si svolgeva in grande stile, esercitato in particolare da ricchi mercanti non solo arabi ma anche ebrei e veneziani, come documentano le cronache (8). Ovviamente risultava del tutto odioso che i governanti meridionali aiutassero i predoni saraceni ai danni delle stesse popolazioni della penisola: al povero Giovanni VIII non restava, dopo aver invocato invano e ripetutamente soccorso all’imperatore, che rivolgersi direttamente ad Amalfi, promettendo denaro nel caso in cui avessero finalmente rotto l’impium foedus con i Pagani o a Napoli minacciando scomuniche, considerato che alle razzie partecipava disinvoltamente anche un vescovo!(9) Ancora più grave il fatto che i duchi di Spoleto e Camerino, i fratelli Lamberto e Guido, incaricati dall’imperatore Carlo il Calvo di proteggere militarmente la Santa Sede da aggressioni esterne, non solo razziavano a loro volta il territorio della Chiesa (10) ma cercavano all’occorrenza perfino alleanze tra i Saraceni (11). Alla fine, approfittando del momento di interregno seguito alla morte di Carlo il Calvo, il duca Lamberto con il cognato Adalberto di Toscana con un pretesto erano anche penetrati a Roma e per un intero mese (marzo 878) avevano relegato il papa nella Città Leonina impedendogli di comunicare con i cardinali e con il clero.

In questo scenario così cupo si deve notare che i conti dei Marsi, benché nominalmente legati alla sorte dei duchi di Spoleto, non assunsero alcun atteggiamento ostile nei confronti del papato. La Marsica, piuttosto, subì, come il confinante Patrimonio di San Pietro, gli attacchi saraceni ai quali era esposta sia nella parte settentrionale, vale a dire nel reatino, che verso sud, al confine con il beneventano. Le incursioni nel settore tirrenico risalgono già al primo decennio del IX secolo e si fanno sempre più violente (nell’846 vengono saccheggiate pure le basiliche di San Pietro e San Paolo a Roma) fino al 916, allorché la battaglia del Garigliano, sostenuta dalle forze congiunte di vari principi cristiani, compreso l’Impero bizantino, segna la fine della prepotenza dei Saraceni. Ma nello spazio di un secolo i predoni avevano avuto modo di scorrazzare a loro piacimento, dando l’assalto a tutti i centri abitati e soprattutto alle abbazie e monasteri, dove il bottino si presumeva più allettante. É certo che trovavano appoggio e rifugio nel sud (12); tuttavia avevano creato una serie di accampamenti fortificati (ribāt) un po’ dovunque, per cui risultava loro estremamente agevole muoversi rapidamente per compiere delle sortite improvvise.

Più agguerrite ed organizzate dovevano risultare le bande provenienti dal meridione, vale a dire dagli emirati di Bari e Taranto, che si facevano strada attraverso il ducato di Benevento per risalire verso nord. Così il Chronicon Vulturnense ricorda la distruzione delle abbazie di San Vincenzo al Volturno e di Montecassino: “Permansit autem desolacio huius monasterii preciosi Martyris Vincencii usque in annos triginta tres, in quibus nullius nominis habitacio, sed tantum bestiarum possessio fuit; et que quondam fuerit excellencior multis, tunc facta est humilior cunctis. Atque ex eo nec monachos congregatos, nec abbatem <hic> habere potuisse usque ad supradictum tempus annorum triginta trium, quo numero humani generis Redemptor in mundo cum hominibus conversari dignatus est, usque ad passionem sacratissime Crucis. Post hec Valerie provinciam et Romanos fines acriter devastantes, Casinum castrum adierunt dyri predones, et monasterium Sanctissimi Benedicti, quod prius a Langobardis destructum … incedentes, penitus diruerunt; omnesque illis Congregacionis fratres, quos capere potuerunt … sine ulla miseracione gladiis necantes, crudeliter extincxerunt …”.
Ovvero: “La desolazione di questo monastero del prezioso martire Vincenzo si protrasse per trentatrè anni, durante i quali non vi fu né abitazione umana e nemmeno pascolo di animali; e quello che era stato il migliore fra molti si era ridotto al più disgraziato di tutti. Non poté avere né monaci né abate, come si è detto, per trentatrè anni, proprio il numero di anni che il Redentore del genere umano si degnò di trascorrere tra gli uomini fino alla passione sulla Santa Croce. Dopo di ciò, devastate ferocemente la provincia di Valeria e la campagna romana, i tremendi predoni si diressero verso la rocca di Cassino e approssimatisi al monastero di San Benedetto, già in precedenza rovinato dai Longobardi … lo distrussero da cima a fondo e tutti i frati di quel convento che riuscirono a catturare … li passarono senza pietà a fil di spada …” (13).

La reazione

La Marsica, per la sua posizione geografica al centro della penisola, costituiva in ogni caso una delicata e pericolosa cerniera tra il territorio dell’Impero franco, di cui rappresentava l’estrema propaggine meridionale ed il ducato di Benevento, anticamera degli emirati pugliesi. Pertanto era naturalmente soggetta agli attacchi ed ai contrattacchi da una parte e dall’altra; tra l’altro, proprio lungo la valle di Roveto, come si è accennato, si muovevano le spedizioni militari dirette verso nord o verso sud. Così, accogliendo le richieste di aiuto che gli recavano gli ambasciatori da parte dei ducati longobardi meridionali affinché “patriam a nefandissima Saracenorum gente dignaretur eripere”, l’imperatore Ludovico II, scendendo in Italia, aveva percorso anche lui quella strada: “Tunc Ludovvicus rex generale edictum in universas regni sui partes dirigens, ut nullus omnino esset qui se ab expeditione subtraheret, anno Domini DCCCmo LXo VIIIo, immensum valde congregavit exercitum, simulque cum domna Angelberga augusta coniuge sua iter arripiens, Beneventi fines per Soram ingreditur, ac mense Iunio pervenit ad monasterium huius sanctissimi patris ubi a venerabili abbate Berthario, universis monachis illi procedentibus, maximo cum honore susceptus est” (14). Ossia: “ Allora il re Ludovico, spedito in ogni angolo del suo regno un proclama generale secondo il quale nessuno poteva assolutamente rifiutarsi di partecipare alla spedizione, nell’anno del Signore 868 raccolse un numerosissimo esercito e insieme con donna Angelberga, sua augusta consorte, messosi in cammino, passando per Sora varcò i confini beneventani e nel mese di giugno giunse al monastero di questo santo padre, dove venne accolto con tutti gli onori dal venerabile abate Bertario e da tutti i monaci in corteo con lui”.

Anche i conti dei Marsi non se ne stavano inattivi di fronte a tanto scempio. A loro onore si deve ricordare l’impresa compiuta da Gerardo, che perse la vita proprio per combattere i Saraceni. Correva l’anno 861 allorché, secondo le parole di Leone Ostiense “nequissimus Saracenorum rex ex nomine Seodàn (15) Barim egressus, venit Capuam, quam totam circumcirca devastans … quoque et Liburiam nullo sibi valente resistere péragrans, in campo Neapolitano tintoria fixit, plurimos cotidie interficiens ac diversas iniquitates exercens. Quo tempore Maielpotus Telesinus et Wandelpertus Bovianensis gastaldei conducto Lamberto duce Spoletino et Gerardo Marsorum comite, exierunt adversus eum cum de Capue populatione rediret, irruentesque super illum Marte aliquandiu ancipiti certaverunt. Ad ultimum Saraceni potiti victoria sunt, Gerardo et Maielpoto atque Wandelperto in acie ipsa peremptis, multis aliis necatis. Propter quod maximam Seodan sumens audaciam, cuncta in circuitu castella preter precipuas civitates cepit, funditusque delevit” (16) ovvero: “Il terribile capo dei Saraceni Seodan, uscito da Bari, arrivò a Capua, devastandone tutti i dintorni fino alla Terra di Lavoro senza trovare alcuno che lo ostacolasse; fissò quindi l’accampamento nell’agro napoletano, facendo stragi tutti i giorni e compiendo parecchie malefatte. Allora Maiepoldo gastaldo di Telese e Guadelberto gastaldo di Boviano insieme con Lamberto duca di Spoleto e Gerardo conte dei Marsi (17) si mossero contro di lui mentre era di ritorno da un’incursione a Capua ed assalendo quel famoso predone combatterono a lungo con esito incerto. Alla fine i Saraceni conquistarono la vittoria, Gerardo, Maiepoldo e Guadelberto perirono nello scontro ed anche molti altri vennero uccisi. Per questo Seodan, incoraggiato, prese tutti i castelli che si trovavano là attorno eccetto le cittadine più importanti e li distrusse da cima a fondo”.

Mentre i conti dei Marsi si immolavano sui campi di battaglia, comportandosi onorevolmente, il duca di Spoleto, il perfidus Spolitanus dux, come veniva definito da papa Giovanni VIII, per le sue mene ai danni del pontefice, già in precedenza aveva mostrato la sua slealtà contro lo stesso imperatore. Approfittando del malcontento che serpeggiava tra i duchi meridionali, venne, infatti, ordita una congiura contro l’imperatore Ludovico II. I principi italiani, a causa del protrarsi delle operazioni belliche contro i Saraceni, mal sopportavano la presenza di Ludovico II, dal quale temevano di essere esautorati, tanto più che questi poteva vantarsi di aver finalmente catturato l’emiro di Bari. Nel mese di agosto dell’871, allora, il duca Adelchi di Benevento, mentre l’imperatore era suo ospite dopo la laboriosa espugnazione della città adriatica, con la complicità di Lamberto di Spoleto e Idelberto di Camerino, imprigionava il sovrano e lo costringeva a giurare che non si sarebbe fatto mai più vivo nel beneventano. Un mese dopo, però, si vedeva obbligato a liberarlo in quanto un grosso contingente di Saraceni era sbarcato a Salerno e si avvicinava minacciosamente a Benevento.
Narra Leone Marsicano:” Cum autem Saraceni Barim degentes undique angustati ad extremitatem ultimam pervenissent, misso exercitu, et civitatem, et Seodan Saracenorum regem cum suis cepit ... Preterea duo quidam comites nisi sunt insorgere in imperatorem, quod cum cognovisset imperator, persecutus est eos usque Marsiam. Ubi illi non audentes consistere, fugerunt Beneventum” (18). Secondo la versione del cronista di Montecassino, perciò: “Allorché i Saraceni che stavano a Bari si trovarono stretti tra mille difficoltà ed erano ridotti all’estremo, (Ludovico II) mandato all’attacco l’esercito prese la città ed il re dei Saraceni Seodan con i suoi …Allora due conti tentarono di rivoltarsi contro l’imperatore, ma quando lui venne a saperlo, li inseguì fin nella contea della Marsica. Non osando fermarsi là, se ne scapparono a Benevento”.
La reazione militare dell’imperatore ottenne al momento ottimi risultati poiché riusci a contenere, con una serie di fortunati scontri militari, la minaccia saracena. È appunto in questo periodo (871-873) con tutta probabilità che Ludovico II intervenne per confermare a favore del monastero di S. Angelo di Barrea ( monasterium sancti Angeli iuxta fluvium Sangrum, quod Barregium dicitur), secondo quanto già deciso dai suoi predecessori (iuxta tenorem preceptorum antecessorum suorum Caroli atque Lotharii), tutte le proprietà immobiliari spettanti a quel cenobio, sparse un po’ dovunque in Abruzzo. Diversi possedimenti erano situati nella contea dei Marsi: “Videlicet in Marsia cellam sancte Marie in fundo Magno cum omnibus sibi subiectis ecclesiis vel rebus, sanctum Euticium in Aretina, cellam sancti Pauli supra ipsam civitatem Marsicanam, sancte Marie in Oretino, sancti Gregorii in Paterno, sancte Marie in Montorone, sancti Salvatoris in Avezzano, sancti Antimi ad Formas, sancti Angeli in Alba, sancti Cosme in Ellerito, sancti Angeli in Carzolo cum duabus cellis suis” (19).

Alla morte di Ludovico II, nell’875, i Bizantini proseguirono nel sud la politica antimusulmana. Ma papa Giovanni VIII (872-882), come si è accennato, descrive uno stato di cose tutt’altro che roseo nell’Italia centrale. Comunque la situazione politica si andava evolvendo a seguito dei mutamenti che si verificavano nel campo socio-economico. Sia nel Patrimonio di San Pietro che nella contea dei Marsi, infatti, si stava affermando una nuova classe sociale, ricca e spregiudicata, di laici ambiziosi, che intendevano rompere con il passato e rendersi indipendenti sia dal papato che dall’Impero. Nel corso di un paio di generazioni le nuove famiglie comitali avevano già creato tutte le premesse per spartirsi un territorio che in gran parte però ricadeva sotto la giurisdizione delle grandi abbazie. Intanto, era necessario sbarazzarsi della molesta presenza saracena e la nuova pagina di storia trovò il suo inizio proprio in Sabina, che si trovava allora pressocché interamente nelle mani dell’abbazia di Farfa.
“Exivit Akyprandus Reatino et alii plures Langobardis et Savinensi et preparaverunt se a pugna cum Sarracenis, a moenie civitates vetustate consumpta, nomine Tribulana, et conflicta pugna, intercedente beato Petro apostolo, Sarracenis interfecti sunt; alia pugna est facta inter Nepisinos et Sutrinos cum Saracenis in campo de Baccani, multosque Saracenos trucidati sunt et vulnerati. Audientes Sarracenis qui erant in Narnienses comitato, Ortuense, et qui erant in Ciculi, preparaverunt se omnes in unum ad dux eorum, qui erat a fluvium Garilianu …” (20): “Aciprando di Rieti e con lui parecchi Longobardi e Sabini si apprestarono a combattere contro i Saraceni sotto le mura di una vecchia città fatiscente, di nome Trevi (21) e impegnatisi nella lotta, con l’aiuto di San Pietro, sconfissero i Saraceni; un altro scontro tra la gente di Nepi e quella di Sutri contro i Saraceni ebbe luogo nella piana di Baccano (22), dove molti Saraceni vennero feriti o uccisi. Avuto notizia del fatto, i Saraceni che si trovavano nelle zone di Narni, di Orte e nel Cicolano, si riunirono insieme per recarsi dal loro capo, presso il fiume Garigliano …”. La narrazione del monaco Benedetto di Sant’Andrea del Soratte si riferisce a fatti che devono essere avvenuti tra il 914 ed il 915. Il segnale della riscossa veniva dato da questa specie di armata popolare, ma tutti i principi italiani, senza alcuna esclusione, avevano già raggiunto finalmente un accordo per un’azione comune contro i Saraceni. Tra i numerosi insediamenti musulmani in Italia il più importante e organizzato era situato alla foce del Garigliano, presso Traetto, l’antica Minturnae. Qui convennero gli alleati: la lega dei cristiani, promossa attivamente da papa Giovanni X, vedeva uniti Alberico di Spoleto, Berengario del Friuli, Landolfo di Capua, Gregorio IV di Napoli, Guaimario II di Salerno, Giovanni e Docibile II di Gaeta, Adalberto di Toscana, Teofilatto di Roma. Nell’agosto del 916 le truppe di questi uomini cingevano d’assedio il ribāt del Garigliano, mentre nello specchio di mare antistante incrociava la flotta bizantina comandata dallo stratego Nicolò Picingli. Dopo un mese di durissimo assedio e di ripetuti assalti, i Saraceni rimasti ancora vivi vennero massacrati. Questa fu la battaglia che, in sostanza, segnò la fine dei musulmani nella penisola e, più in generale, di un’epoca.

In conclusione, la lunga presenza dei Saraceni, favorita dalle circostanze storiche, non era stata mai accettata e non aveva portato ad alcuno scambio culturale con i cristiani. La pratica della riduzione in schiavitù ed il saccheggio, ammessi da una parte e dall’altra, vennero presi successivamente a pretesto per fomentare vieppiù l’incomprensione e l’odio. Prima il folclore e poi la letteratura, a volte anche con intenti propagandistici, giustificarono e glorificarono le crociate, durante le quali i cristiani si mostrarono non meno feroci dei musulmani e poteva anche accadere, come narra Fulcherio (23), che a Gerusalemme i cristiani raccogliessero gli arabi caduti in combattimento, ma non per seppellirli: “squarciavano il torace dei morti alla ricerca di bisanti nelle loro viscere, bisanti che, quando erano in vita, si erano sforzati di trangugiare”. A dimostrazione delle miserie umane, per cui in ogni caso e sotto qualunque specie pecunia non olet !

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note

(1) I sudditi di uno Stato islamico non musulmani erano anche liberi di seguire la propria religione benché sottoposti ad uno statuto speciale (erano perciò detti dhimmī). Nella Vita Johannis Gorziensis (il benedettino Giovanni di Gorze, morto nel 976, fu inviato nel 953 da Ottone I al califfo di Cordova ‘Abd ar-Rahmān) un vescovo mozarabo scrive all’inviato dell’imperatore tedesco:” Siamo caduti in questo stato di cose a causa del peccato e così ora siamo in potere dei pagani … nel dolore di così grande sventura essi non ci impediscono di praticare la nostra religione e quando ci vedono osservare con diligenza i precetti cristiani, ci onorano e ci comprendono” (Norman Daniel, Gli Arabi e l’Europa nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 2007, pagg. 114-115).
(2) In origine con il nome di Saraceni (lat. Saracenus, gr. Σαρακηνός) si indicava una popolazione che abitava le coste del golfo di ‘Aqaba, a sud della penisola del Sinai. Gli scrittori della tarda antichità e del Medioevo se ne servirono per designare tutti gli Arabi nomadi ed in genere i musulmani. Per Agareni si intendono i discendenti di Agar (ebr. Hāgār), la biblica schiava di Sara, la quale, essendo sterile, la offrì come concubina al marito Abramo. La tradizione islamica, però, ne fa la moglie legittima di Abramo. Da lui, comunque, ebbe il figlio Ismaele (ebr. Yishmā’ē’l), il quale, a sua volta, generò dodici figli, considerati i progenitori delle tribù arabe. Ispirandosi al racconto biblico, l’Islàm assunse Ismaele come capostipite del popolo arabo aggiungendo che morì alla Mecca e che venne sepolto nel luogo della Ka’ba. Da ciò il termine di Ismailiti per Arabi o musulmani. Nelle cronache medievali e nella corrispondenza pontificia ai Saraceni vengono poi riservati altri nomignoli o termini spregiativi quali “filii fornicationis”, “gens pestifera” e così via. La designazione degli Arabi come “Pagani”, inoltre, si spiega per il fatto che nell’Alto Medioevo non si ebbe alcuna nozione della religione islamica, se non altro perché i predoni che si avventuravano nel cuore della penisola non avevano sicuramente scopi missionari e venivano ritenuti seguaci di una strana setta eretica. La prima traduzione latina del Corano, infatti, fu ordinata dall’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, al monaco inglese Roberto di Ketton solo all’inizio del XII secolo.
(3) A Quierzy venne stretto nel 754 un patto (promissio carisiaca) tra papa Stefano II ed il re Pipino per cui, in cambio della consacrazione della nuova dinastia franca da parte pontificia, il sovrano si impegnava a combattere in Italia contro i Longobardi ed in caso di vittoria al ducato di Roma sarebbero stati annessi tutti i territori a sud della linea Luni-Monselice, la Tuscia longobarda, l’Esarcato, l’Emilia, la Venezia, l’Istria, la Corsica e i ducati di Spoleto e Benevento. Fu questo l’effettivo punto di partenza del potere temporale della Chiesa, la quale prese ad accampare diritti su buona parte della penisola italiana.
(4) Cfr. Dialogorum Gregorii Papae Libri Quatuor de miraculis patrum italicorum, dove la denominazione di “Valeria” ricorre frequentemente.
(5) Ad esempio: “Per quadraginta octo annos iugiter permanserunt infra terminos Italie predicti Sarraceni. Precipue in Valeria provincia habitabant, quam magni montes occupant, in quibus confugia semper faciebant” (Gregorio di Catino, Il Chronicon Farfense, a cura di Ugo Balzani, Istituto Storico Italiano, Roma 1903 (rist. anastatica 1972), vol. I, pag. 32.
(6) Traduzione: “Anche per colpa dei Cristiani, entrò in Italia una massa di Pagani, cioè di Saraceni; e mentre venivano a mancare le armate italiane si accresceva la loro potenza, tanto che al di qua del Po c’erano ben poche città, fatta eccezione per Roma e Ravenna, che essi non avessero distrutto o sottomesso”.(Gregorio di Catino, op. cit., vol. I, pagg. 28-29).
(7) Registrum Johannis VIII papae, pag. 35, n. 36 (novembre 876), in Monumenta Germaniae Historica, Erich Caspar: Epistolae Aevi Karolini (V), Berlin 1928.
(8) Cfr. Ibn Khurdā’dhbih, “Il Libro delle vie e dei Regni” (IX secolo), in Bernard Lewis, I Musulmani alla scoperta dell’Europa, Laterza, Roma-Bari 1991, trad, Denis M. Batish, pag. 137. L’ autore, un alto funzionario persiano, specifica che proprio gli Ebrei erano tra i mercanti più intraprendenti.
(9) “Nello stesso tempo il vescovo di Napoli Atanasio, maestro delle milizie, governava la città; egli, come si è premesso, avendo mandato in esilio suo fratello, stipulò la pace con i Saraceni e li collocò fra il porto e le mura della città, ed essi partendo da lì fecero incursioni sul territorio beneventano, romano e una parte dello spoletano, depredando tutti i monasteri e le chiese, tutte le città e fortezze, i villaggi, i monti, i colli e le isole. Fra gli altri il santissimo monastero di S. Benedetto venerato in tutto il mondo e il monastero di S. Vincenzo martire furono bruciati …” (Erchemperto, Storia dei Longobardi, Ciolfi Editore, Cassino 1999, trad. di Giuseppe Sperduti, n. 44, pagg. 93-94). “In questo mezzo il papa …adunato un sinodo a Roma, nel mese di marzo ottocento ottantuno, pronunziò contro Atanasio l’anatema, preludio, come ognun sa, della scomunica. Notevol è in quest’atto che il papa affermava aver profferto danari ad Atanasio, perché spezzasse il patto coi Musulmani; e aver quegli meglio amato la parte che gli davano del bottino. Ma il vescovo, niente sbigottito, spacciati suoi segretarii in Sicilia, fe’ venir più forte stuolo di Musulmani; i quali, con Sichaimo loro re … si accamparono alle falde occidentali del Vesuvio” (Michele Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Le Monnier, Firenze 1854, vol. I, pag. 456). Cfr. anche Luigi Tosti, Storia della Badia di Monte-Cassino, Napoli 1842, Tomo I, Libro I, pag. 60.
(10) “Innumera mala faciunt et rapinas multas exercent” scriveva il pontefice a proposito delle incursioni effettuate ai danni del Patrimonio di San Pietro dagli uomini di Lamberto e Guido. Ben diverse erano state le intenzioni dell’imperatore: “Salernitani, Amalphitani, Neapolites et Caietani fedus cum Saracenis componentes Romam navalibus depredationibus angustiabant. Propter quod Karolus … a Johanne octavo papa multis epistolis interpellatus, Lambertum ducem et fratres eius Guidonem illi in auxilium destinavit” (Leo Marsicanus, “Chronica Monasterii Casinensis”, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, Tomus XXXIV, Hannover 1980, Libro I, 40, pagg. 109-110). Cfr. anche P. Jaffé, Regesta pontificum Romanorum ab condita Ecclesia ad annum p. Chr. n. MCXCVIII, Berlino 1851, 2251, pag. 262 e 2291, pag. 265.
(11) Alla vigilia della partenza da Roma per recarsi al Concilio di Troyes (maggio 878) Giovanni VIII accusava, in una lettera a Luigi il Balbo, il duca Lamberto (“Nunc etiam Tarentum legatione directa paganis donaque transmittens atque ab eis accipiens suppliciter deprecatus est, ut sibi … phalange Agarene ad perniciem Christiani populi quantocius deferant auxilia”) di aver scambiato donativi con i Musulmani di Taranto perché gli mandassero al più presto delle milizie ausiliarie per combattere contro i Cristiani.
(12) “Cumque nostri quique Saracenos insecuntur, ipsi, ut possint evadere, Neapolim fugiunt, quibus non est necessarium Panormum repetere …” cioè: “E quando i nostri inseguono i Saraceni, quelli, per fuggire, riparano a Napoli, non essendo più necessario per loro raggiungere Palermo …”. Così l’imperatore Ludovico II, rivolgendosi all’imperatore bizantino Basilio I (867 – 886), si lamentava del fatto che i pirati saraceni, dopo le incursioni nell’Italia centrale, si rifugiavano a Napoli dove trovavano ospitalità e connivenza (Anonimo, “Chronicon Salernitanum”, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptorum Tomus III, Hannover 1839, n. 107, pag. 526).
(13) Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a cura di Vincenzo Federici, Roma 1925, volume I, Libro III, pag. 369 (edizione digitale Google). Era il 22 ottobre dell’anno 883 o 884: nell’incursione fu ucciso anche l’abate Bertario di Montecassino (cfr. Leo Marsicanus, “Chronica Monasterii Casinensis” cit., Libro I, 44, pag. 114 e in particolare E. Gattola, Historia Abbatiae Cassinensis, S. Coleti, Venezia 1733, parte I, pagg. 66-67 (rist. anastatica F. Ciolfi, Cassino 1994).
(14) Leo Marsicanus, “Chronica Monasterii Casinensis” cit., Libro I, 36, pagg. 98-99. Con la “Constitutio promotionis exercitum” nel febbraio dell’865 effettivamente Ludovico II aveva emanato disposizioni severe perché vescovi e conti del suo regno controllassero che nessun suddito valido si sottraesse all’impegno militare.
(15) Seodan (anche nelle versioni Sadan, Saugdan e perfino Satan) è un nome di capo saraceno che ricorre frequentemente nelle cronache dell’epoca. Probabilmente è la versione latina dell’arabo sultān, che vale “principe, sovrano”.
(16) Leo Marsicanus, “Chronica Monasterii Casinensis” cit., Libro I, 35, pagg. 94-95. Cfr. anche Chronicon Vulturnense cit., volume I, Libro III, pagg. 356-357.
(17) Per la verità Erchemperto precisa: “Quo tempore Maielpotus Telesinus et Guandelpert Bovianensis castaldei multa cum prece conduxerunt Lambertum ducem Spolitensium et Garardum comitem …”, cioè Maiepoldo e Guadelberto pregarono vivamente il duca Lamberto ed il conte Gerardo perché partecipassero all’intervento militare contro i Saraceni di Bari (Storia dei Longobardi cit., 29, pagg. 21-22; cfr. pure Luigi Tosti, Storia della Badia di Monte-Cassino cit., tomo I, Libro I, pagg. 51-52). La descrizione della battaglia nella quale persero la vita i tre cavalieri cristiani si trova nella Cronaca di San Benedetto (Anonimo, “Chronica Sancti Benedicti Casinensis” a cura di G. Waitz, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores Rerum Langobardicarum et italicarum secc. VI-IX, Hannover 1878, 16, pag. 476. A detta dell’Anonimo, verso il tramonto (iamque sol ad occasum tendebat), mentre le truppe cristiane marciavano disordinatamente (inhordinate proficiscebant) vennero inaspettatamente a contatto con i Saraceni nei pressi di Arium (Ariano Irpino?). Poiché i militari erano stanchi e parecchio assetati dopo una lunga marcia (sicut fuerunt lassi et nimium equidem fatigati sitientesque valde) si gettarono subito a terra (se protinus straverunt in terram). Ma i Saraceni, raggruppatisi in un unico manipolo, li assalirono immediatamente senza dar loro il tempo di organizzarsi per la battaglia. I Cristiani presero subito a fuggire (terga vertentes, fugere coeperunt), inseguiti dai Saraceni che ne fecero strage (Plurimi interempti a gladiis, nonnulli cadentes, in alterutrum impingentes, praefocabantur …).
(18) Leo Marsicanus, “Chronica Monasterii Casinensis” cit., Libro I, 36, pag. 101. L’A. liquida sbrigativamente il complotto contro l’imperatore, accennando a duo quidam comites, in fuga verso la Marsica, senza fare nomi e tralasciando di nominare anche il maggiore responsabile dell’intrigo, Adelchi di Benevento. Pure gli “Annales Beneventani “(in Bullettino dell’Istituto Storico Italiano e Archivio Muratoriano n. 42, Roma 1942, pag. 116) si limitano a ricordare “Venit Ludowicus rex in Beneventum; et pugnavit cum Sotan rege Hismaelitarum et vicit eum. Comprehensus est Beneventanis Ludovicus rex”. Ugualmente il Rerum in regno Neapolitano gestarum breve chronicon di Lupo Protospatario, sotto l’anno 868, registra: “Indictione prima exierunt Agareni a Baro Civitate per Francos, tertia die intrante mensis Febr. eodemque anno comprehensus est praedictus Ludovicus in Benevento”.
Giovanni Diacono, però, più esattamente (Iohannes Diaconus, Istoria Veneticorum, Liber III, 8, pag. 134, pubblicata in ALIM - Archivio della Latinità italiana del Medioevo, versione digitale a cura della UAN, Unione Accademica Nazionale) annota: “Adelchisi Langobardorum princeps imperatorem extinguere mollitus est. Sed cum facile hoc nefas perficere non valeret, sacramento eum constrinxit quod ultra in regione eadem nec ipse, nisi rogatus, veniret, nec exercitum mitteret”. Erchemperto, infine (Storia dei Longobardi cit., 34, pag. 24) scrive: “Adelgisus princeps adversus Lodoguicum augustum erectus cum suis, Beneventi infra moenia degentem ac secure quiscentem actu doloso sanctissimum virum, salvatorem scilicet Beneventanae provintiae, cepit et custodiis mancipavit, bonaque eius diripiens, ditatus est, cunctosque viros exercitales spoliare et fugere compulit et de exuviis eorum onustatus est”. Esprime, quindi, un netto giudizio di condanna per il tradimento perpetrato da Adelchi. Opinione pienamente condivisa dal Gregorovius, notoriamente filogermanico (Ferdinand Gregorovius, Storia di Roma nel Medioevo, Newton Compton, Roma 1972, vol. II, Libro V, pagg. 101-102).
(19) Leo Marsicanus, “Chronica Monasterii Casinensis” cit., Libro I, 37, pagg. 103- 105.
(20) Il Chronicon di Benedetto a cura di G. Zucchetti, Istituto Storico Italiano, Roma 1920 (rist. anastatica 1966), pag. 157.
(21) Si pensa che si tratti della romana Trebula Mutuesca o Mutusca, le cui rovine si conservano presso l’attuale Monteleone Sabino (Rieti).
(22) Prende il nome dalla antica statio ad Baccanas, situata lungo la via Cassia, a 21 miglia da Roma. Il fondo della cosiddetta valle di Baccano era occupato da un lago prosciugato completamente solo nel XX secolo. Trattandosi di zona paludosa e malarica, era pressocché disabitata e ricetto, fino a tempi recenti, di malviventi che vi si appostavano per derubare i viaggiatori. Nel X secolo, come è evidente, ospitava un accampamento saraceno.
(23) Fulcherio di Chartres (Foucher de Chartres, 1058 – 1127), cappellano di Baldovino di Fiandra durante la prima crociata, scrisse i Gesta Francorum Hierusalem peregrinantium, fonte quasi unica per la storia di quegli avvenimenti (cfr. Norman Daniel, Gli Arabi e l’Europa nel Medioevo cit., pag. 214).

 

Tratto da http://www.romamedioevale.it/

di NICOLA CARIELLO