A un palmo dal cielo

A un palmo dal cielo

Basta gettare lo sguardo oltre il punto di intersezione di questa grande V al quale si giunge dopo un'ascesa nel fitto del bosco della magnifica faggeta che percorre ripida Valle di Fua, per acquisire consapevolezza che è l'uomo la vera e propria "macchina del tempo" perché nel suo a-nimo convivono, con prevalenza alternata, futuro, presente e passato come la amenità dei luoghi suggerisce.

La sensazione che qui si avverte è tuttavia quella di vivere la contraddizione perché si resta sospesi a qualcosa di elitario ed al contempo reale, cosa che accade quando la grandiosità della natura sovrasta e pervade quel che comunemente chiamiamo "il nostro patrimonio esistenziale" frutto delle esperienze di vita vissuta, di sogni e speranze. In tale condizione, giunti alla quota di m. 1900 s.l.m. osserviamo l'incisione dei versanti montuosi con a sinistra il Monte Morrone (m. 2266) ed a destra il Costone (m. 2237), con falde ancora leggermente boscose che diradano verso le cimate, lasciando così all'altopiano vallivo un raso erboso morbido e lussureggiante di cui è godibile il verde intenso nei periodi di mancato innevamento ed un colore stupendamente dorato ad Agosto quando l'assenza della pioggia si fa sentire ed i raggi del sole rimbalzano fra le rocce carsiche scottando la terra. Siamo sui leggendari Monti della Duchessa, che si estendono in direzione nord/ovest sud/est sulla linea appenninica del massiccio del Velino Sirente, in un'area ove sono stati tracciati improbabili confini fra il Lazio e l'Abruzzo e dove i tre ettari di superficie del lago alpino della Duchessa appaiono come una lastra di verde giada incastonata in spuntoni di pietre grigie che lo contornano e ne delimitano l'ampiezza, piccolo specchio in cui ama proiettarsi la maestosa parete di Muro Lungo testimonianza, insieme alle perpendicolari di Valle di Teve e più in là di Vena Stellante, dell'origine glaciale della Valle e della assoluta conservazione ambientale che ha serbato nei millenni.

E' su questa asperità, ove la profondità dello strato vegetale è limitato a qualche centimetro, che l'occhio attento può ancora individuare i "Cassi" strutture circolari realizzate con pietre sovrapposte prive di malta su cui venivano poggiati pali che sorreggevano frasche o teli a mò di copertura, posizionati in modo strategico con un'unica apertura che ne consentiva l'accesso, rivolta verso un'area - in genere leggermente scoscesa per consentire il deflusso dell'acqua piovana - ove veniva realizzato lo stazzo per il ricovero delle greggi. Fino a non più di trenta anni fa questa parte di montagna, naturale appendice pascoliva del paese di S. Anatolia, posto più in basso ad un'altitudine di m. 753 s.l.m., era tutto un brulicare di pastori e greggi e si contavano decine di queste costruzioni ove ognuno cercava di ricrearsi l'ambiente familiare usuale tenuto conto che il distacco dalla famiglia e dal paese si protraeva per sei, sette mesi. Proprio nella parte più bassa e cioè quasi al termine dell'ascesa all'uscita del bosco sulla sinistra, è ancora oggi visibile una mirabile concentrazione di tali costruzioni, quasi un piccolo "paese" con tanto di lastricato per percorrerlo comodamente nella sua estensione.

Certo è un esempio del tutto eccezionale che indurrebbe una approfondita ricerca per capire quali fossero i motivi che portarono un buon numero di pastori ad una coabitazione che in tutto il mondo pastorale è sempre stata difficile (se non impossibile) sia per fattori caratteriali che per motivi pratici come ad esempio l'evitare il mescolarsi dei greggi, la necessità di spazio per ricoverare gli armenti, per mungerli e fare il formaggio. "Erano tempi tosti" raccontano i fratelli Remo e Mario Spera i cui volti escono dalla penombra ogni volta che la fiamma del fuoco è alzata dallo "spiffero del Bicchero" cioè quel filo di vento perenne che ti gela anche d'estate e che taglia ogni angolo della montagna immancabilmente da est ad ovest. Ed i ricordi dell'infanzia e dell'età matura della loro vita pastorale sembrano scorrere con la stessa continuità dello spiffero, lungo un percorso esistenziale che non ha tempo e forse lo attraversa a ritroso lungo una genealogia che non offre mutamento dei ruoli o differenze di condizioni. Il loro amore per la vita è forte, incondizionato, semplice perché si trasfonde nella coesistenza di elementi di valore, assolutamente arricchiti dall'esperienza di generazioni quali il gregge, la natura che gli offre il nutrimento, la famiglia ove confluisce il frutto del duro lavoro e che riflette felicità di una purezza disarmante. Con un pugno di altri uomini come Gregorio Lanciotti, Angelo Lanciotti, Luigino Tiberti, Pierino Rubeis, salgono ancora lo stesso sentiero di sempre allo sciogliere delle nevi, ognuno per suo conto, per tornare a casa dopo i mesi dell'alpeggio quando pioggia e grandine preludono all'inverno che arriva di nuovo. Sono i pacifici e sconosciuti eroi del nostro tempo, gli inconsapevoli custodi di una parte buona del mondo. Quel fuoco che è stato alimentato per gran parte della notte e che a sua volta, con il tepore ed il crepitare, ha alimentato i racconti e le conversazioni, alle prime luci dell'alba riprende vigore per la altrettanto nobile funzione di scaldare il latte nei "cotturi" ove affondano le mani che solleveranno le palle di formaggio fresco che passerà nella forma e verrà salato. Il rito non solo è eseguito con sacralità dal pastore che coglie il frutto del suo lavoro e verifica in termini di resa la quantità del prodotto e, quindi, lo stato di salute degli animali, la qualità dell'erba da essi assunta in quel determinato posto ove hanno pascolato, ma atteso da spettatori interessati quali i cani che osservano in fila e guaiscono sicuri che verrà loro concesso il siero di avanzo. All'imbrunire, rientrati gli armenti, la storia si ripete ma stavolta il concerto è completo, visto che alle voci dei cani si aggiunge il belare delle pecore, lo stridio dei grilli, qualche canto di pastore quasi di preparazione e di invito alla notte che incombe.

"Una ventina di anni fa con grandi sacrifici costruimmo cinque piccoli rifugi per consentire ai nostri pastori una vita migliore e più umana, captando l'acqua sorgiva di Fonte Salomone che è appena sotto il Morrone. Per questo subii anche un processo in Pretura, ma il Giudice capì e mi assolse" dice Giacomo Spera già Presidente e restato punto di riferimento dell'Amministrazione con cui Santa Anatolia gestisce in proprio questa proprietà collettiva che si estende per 341.000 ettari su un totale dell' area utile di 840.000 ettari, seguito con uno sguardo di assenso e solidarietà dall'attuale Presidente Remo Amanzi. I due spiegano come il pascolo avvenga con la tecnica del pascolamento libero, di tradizione atavica, sicchè ogni pastore è libero di portare il gregge dove vuole in pieno rispetto degli altri ed in modo democratico. I naturali di Santa Anatolia hanno anche dovuto sostenere una battaglia legale con l'Istituto Sperimentale per la Zootecnica di Roma per il riconoscimento dei propri diritti su parte del comprensorio. Tenzone, risolta favorevolmente, che ha evocato un passato remoto, quando cioè le Montagne della Duchessa erano feudo del Principe Colonna Duca di Tagliacozzo, (nell'anno 1815 l'area aveva la stessa odierna estensione) poi tenute dai duchi Grazioli Lante della Rovere e finalmente assegnate ai naturali di Santa Anatolia nell'anno 1927 ed in parte all'Istituto Sperimentale di Zootecnica che però non vi esercita alcuna funzione.

Poco distante dagli stazzi piegando leggermente sulla destra e salendo per un suggestivo sentiero che va ad infilarsi fra le rocce si può raggiungere in un'ora e mezzo di cammino la cima di Muro Lungo che si frappone fra il raso della Duchessa ed il Vallone di Teve. Prima di arrivare in vetta si ammira, in più punti, un panorama mozzafiato sporgendosi da naturali lastroni di roccia che sembrano tanti belvedere e che si interrompono al limitare di orridi che precipitano nei sottostanti boschi e sembrano da questi inghiottiti. E' qui che si incontra quella che i pastori chiamano "la cassella" e cioè uno strettissimo corridoio obbligato fra due rocce ove i greggi ,condotti sempre più raramente su pratoni distanti dagli accampamenti, sono costretti a sfilarsi sicchè, potendo gli animali passarla uno per volta, ne è possibile la conta sia all'andata che al ritorno serale.

In direzione nord/est dopo aver superato il Lago, si entra in quella che i locali chiamano "Valle Paradiso", incredibile vallone erboso che si percorre senza soluzione di continuità per circa ottanta minuti sino ad una prominenza rocciosa denominata "Malo Passo" posta a presidio di Capo Teve e che è costituita dalle stesse caratteristiche morfologiche che compongono "la cassella" e che vengono utilizzate per la conta del gregge dai pastori di Rosciolo e quindi dal versante marsicano dell'area montana. E se all'imbrunire ti imbatti in un gregge che lentamente sciama verso i recinti di pali intrecciati accompagnati e protetti soltanto dai bianchissimi pastori abbruzzesi e sollecitati alla giusta direzione dai piccoli cani "da tocca", vuol dire che il conto non era tornato e che il pastore è alla ricerca della pecora perduta. Quello dello smarrimento dei capi di bestiame, che è regola e non eccezione nella dura vita alpestre, è un capitolo assai significativo ramificato in varie implicazioni di cui occorrerebbe conoscere le intere ragioni per poter meglio comprendere in tutta la sua vastità questo microcosmo pastorale. Un insistito volteggiare dell'aquila o il fluire ed il defluire di gruppi di grifoni in determinati orari ed in direzione ripetuta è un spettacolo aereo di incommensurabile bellezza ma è altresì infausto segno di morte perché indici sicuri dei resti di un animale predato dal lupo o caduto inavvertitamente dalle rocce oppure - se molto giovane - disperso e perciò privo di difesa. Lo scoramento che assale il pastore al manifestarsi di tali segni premonitori non è solo motivato dalla perdita economica che consegue al decremento del suo patrimonio, ma è anche affettivo perchè - sembra incredibile - egli conosce uno per uno i suoi animali. Accade udirlo inveire contro questo o quel capo del gregge perché si è allontanato da esso o non ne segue pediessequamente il cammino, di chiedere con accenni labiali e talvolta con frasi compiute ai cani pastori di prendere postazioni di guardia diverse da quelle che hanno assunto ed a quelli "da tocca" di andare a "girare" il gregge o di modificarne il tragitto, o ancora di mordere le zampe ad una bestia troppo lenta per accellerarne l'andatura. Oppure, riposto nella posizione di mungitura, valutare con sguardo veloce ed attentissimo se il capo che di volta in volta gli viene sospinto innanzi dal cane a ciò deputato sia quello da mungere o se viceversa dovrà riposare o allattare un piccolo nato.

Non è azzardato affermare la similitudine intercorrente fra le attenzioni e le cure che un padre riserva al figlio malato e l'affinità con cui il pastore assiste per giorni l'animale sopravvissuto al morso della vipera o a quello del lupo. Si può osservare come egli si curi con estrema dedizione di realizzare il più comodo giaciglio, incidere la parte attinta al fine di eliminare gonfiose infezioni ed a disinfettare le ferite, a sollevare l'animale per cambiargli posizione, facendo il possibile per salvargli la vita o alleviargli semplicemente la sofferenza, oltre ogni rassegnazione. La rabbia è riservata ad altri momenti, quando il lupo reso invisibile dalla notte in modo fulmineo riesce a saltare nel recinto o a passare ove la sua maglia è più larga ed in una manciata di secondi arriva a sgozzare - come sa fare - anche decine di pecore. Al verificarsi di ciò il pastore, sempre pronto e capace di fronteggiare ogni diversa situazione, sente il morso della sua impotenza perché ogni prontezza non può gareggiare con l'istantaneità dell'evento, ogni ragionamento non vale a fronteggiare la ineluttabilità oltre che la inutilità del fatto. O come quando, racconta Angelo Lanciotti, la tempesta lo sorprese ed uno dei fulmini che flagellavano le rocce bagnate, colpì con la sua poderosa carica il terreno particolarmente acquoso ove stava transitando il gregge, folgorandone per conduzione molti capi e facendo ruzzolare egli stesso fra quelli bruciati. O ancora come quando intere mandrie di cavalli allo stato brado ed affidati all'incoscienza dei proprietari, sconfinano provenienti da altre zone e pascolano del tutto abusivamente rovinando in tal modo il compatto manto erboso la cui naturale ricostruzione avrà bisogno di anni oltre che a sottrarre parte delle risorse a chi ha sostegno da esse in questa parte di montagna dalle ottime condizioni pedologiche.

Le modernità, come altrove nella regione, hanno falcidiato gli allevamenti cosicché il patrimonio zootecnico del luogo conta non oltre 1300 capi. Ma restano intatte le tradizioni, gli usi ed i costumi sul modo genuino di allevare e di produrre formaggi e carni, frutto di foraggi d'altura composti da graminacee e leguminose spontanee recanti equilibrio alla economia familiare e sostenitrici della difesa idrogeologica.

Se si arriva in questo paradiso non ci si potrà sottrarre dallo stendersi su un tale morbido tappeto e respirare profondamente il profumo che viene dalla festuca e dal grassoccio quanto minuscolo trifolium e, con gli occhi immersi nel cielo che è ad un palmo, adagiarsi al pensiero che il sogno non potrà finire.

Di Giancarlo Paris del 9 gennaio 2012

Tratto da http://www.terradabruzzo.com/luoghi/un-palmo-dal-cielo.php