Capitolo II - Anatolia e Audace

1. Premessa - 2. Introduzione - 3. I - Voci nel Tempo - 4. II - L'Era dei Martiri - 5. III - Anatolia e Vittoria - 6. IV - Deportazione a Tora - 7. V - Il ritrovamento delle reliquie - 8. VI - La città di Tora

1. Premessa

Domenico Federici, all'anagrafe Domenico Augusto, nacque a Cerreto Laziale il 22 aprile del 1898 da Tommaso e Angela Zuccari. Tommaso era nato a Cerreto nel 1859 da Domenico e Agnese Tirelli. Angela era nata anche lei a Cerreto nel 1865 da Sebastiano e Giovanna Di Filippo. Tommaso, prima di Angela, aveva avuto per moglie Giustina Tirelli, deceduta nel 1885 in seguito al parto del figlio Domenico Giustino, purtroppo anche lui deceduto a soli due anni di età nel 1887. Giustina era sorella di prime nozze della seconda moglie di Tommaso, Angela Zuccari. Giustina infatti era figlia di Giovanna Di Filippo e del primo marito morto Paolo Tirelli. Giovanna era figlia di Luigi e Giustina Latini di Cerreto Laziale.

Tommaso, dopo la morte della moglie, ebbe inizialmente una relazione non ufficiale con la sorella Angela, dalla quale ebbe quattro figli: Giustina (1892), Domenico (1895-1897), Domenico Augusto (1898) e Agnese (1900). Il 23 febbraio del 1903 i due decisero di sposarsi a Cerreto, legittimando nello stesso atto i figli. Domenico Augusto il 10 ottobre del 1923 sposò a Canterano Gisella Iolanda De Angelis (1901) da cui ebbe alcuni figli. Morì a Tivoli il 27 settembre 1983.

Domenico, avvocato e notaio, fu autore di vari articoli e saggi riguardanti l'area dell'Aniene, il territorio di Subiaco, il territorio tiburtino e altro (1).

Fin da bambino aveva frequentato la chiesa di S. Anatolia di Gerano che si trovava ad appena un chilometro dalla sua abitazione e, certamente, il 9 e 10 di luglio di ogni anno aveva partecipato alla grande festa alla quale accorrevano sempre migliaia di pellegrini. Intorno alla metà del XX secolo fece delle ricerche e il 22 maggio del 1953 diede alla luce la prima stesura del libro «La leggenda di S. Anatolia Vergine e Martire del Cicolano».

Fu nell'estate di quell'anno che venne a S.Anatolia, probabilmente in occasione della festa del 9-10 luglio 1953. Portò con se una copia dattiloscritta del suo libro, forse l'unica, che consegnò al nostro parroco che era allora don Giovanni di Gasbarro. Questi l'avrebbe dovuta correggere e poi restituire per la pubblicazione. Il nostro buon parroco ci mise molto impegno a correggere la bozza ma dovette attendere invano che l'avvocato tornasse a riprenderla. Alcuni anni dopo giunse a Sant'Anatolia lo storico Vincenzo Saletta di Palmi il quale approfondì ulteriormente le ricerche e quindici anni dopo, nel 1968, pubblicò in Roma il libro «S. Anatolia». Forse fu proprio per questo che Domenico Federici mise da parte il suo lavoro, superato da quello del Saletta. Non possiamo sapere però se fu proprio l'assenza del Federici che spinse don Giovanni a far leggere la bozza al Saletta, il quale poté avvantaggiarsi delle ricerche già fatte.

Io possiedo una copia della bozza del libro di Domenico Federici, avuta direttamente da don Giovanni Di Gasbarro il 19 marzo del 1986 che, con l'intento di rendere onore e merito ad una fatica svolta, ho deciso di trascrivere e riportare integralmente qui di seguito.


La leggenda di S.Anatolia
Vergine e Martire del Cicolano

2. Introduzione

Al lettore.

La narrazione dei miracoli della Beata Vergine Maria ovvero dei Martiri comunemente si chiama leggenda (dal latino legenda, cose da leggere) e in questo senso il vocabolo è stato qui adoperato.

Statua di S. Anatolia a Gerano

 

Anatolia e Vittoria - S. Apollinare Nuovo di Ravenna

 

Nella stesura della leggenda di S.Anatolia mi sono avvalso dei materiali apprestati esattamente un secolo fa', ma poco noti, da mons. Pietro Caponi (2), Canonico Teologo in Subiaco. Il suo opuscolo è per me il più organico tentativo d'orientamento in mezzo alla farragine di notizie sparse sulla Taumaturga del Cicolano.

L'ho aggiustato chiarendo punti oscuri, tralasciando quelli meno sicuri, con aggiunta di scorci storici e di breve ragionamento circa l'identificazione della Città di Tora.

So, a questo proposito, di non esser d'accordo con l'opinione corrente che ha trovato, e non se ne conoscono i motivi, questa città altrove. Ma il dissidio è antico e non parte da queste pagine. Peraltro tutto ciò è frangia e contorno. Anche quando la narrazione sembra distrarre o divagare il lettore, in realtà ubbidisce alla necessità di svolgere notizie un po' scucite e talora frammentarie. Spero di aver assolto il modesto compito di guida e in particolare di non aver tradito lo scopo essenziale prefisso che è quello di edificare i buoni cristiani mediante la ricostruzione di avvenimenti degni di esser letti, cioè di una leggenda così decisiva, come quella di S.Anatolia, per la vita contemplativa.

Al lettore benevolo chiedo in cambio della mia fatica soltanto comprensione per le eventuali manchevolezze che egli troverà in questo scritto.

Roma, 22 maggio 1953. Domenico Federici

3. I - VOCI NEL TEMPO

La Sposa del Sangue

Pio XII, parlando agli uomini di Azione Cattolica adunati a Roma il 7 novembre 1947, raggruppò in cinque punti l'esercizio della nostra attività; e cioè:

  • Cultura religiosa, contrapposta all'anemia della vita religiosa, dovuta alla quasi ignoranza in cose religiose.
  • Santificazione delle feste a gloria di Dio in lieto ritrovo nella famiglia.
  • Salvezza della famiglia cristiana rivendicando all'Italia il vanto di una primaria forza, la madre italiana.
  • Giustizia sociale per raggiungere una più giusta distribuzione di ricchezze.
  • Lealtà e veracità nella convivenza umana, con rinnovamento del sentimento e dello spirito di una responsabilità individuale.

Il Pontefice proseguiva così: «la Chiesa è sempre giovane e tale rimarrà. è la sposa del sangue (Exod. 4,23) e nel sangue sono i suoi figli calunniati, imprigionati, uccisi. Vuol ritrovare l'immagine del suo Sposo divino per soffrire, per combattere, per trionfare con Lui. Maria Goretti e Contardo Ferrini, con l'intercessione della madre di Dio e dei Santi, vinceremo la Causa Santa !» Oltre un anno passato e, tornando a parlare ai giovani romani di Azione Cattolica celebranti il 35 anniversario della Federazione diocesana di Roma, Pio XII, il Papa della gioventù (com'egli stesso si era definito), ancorò i problemi dell'ora in tre capisaldi:

  • Chiari principi
  • Coraggio personale
  • Unione indissolubile tra religione e vita.

La connessione evidente fra tali capisaldi e i cinque punti indicati agli uomini di Azione Cattolica, non rientra tra i fini di questo scritto dove invece preme di sottolineare il 2 caposaldo del Santo Padre così sviluppato:

«Non vi meravigliate, diletti figli, se parlando del coraggio noi vogliamo sottolineare la parola personale unitiva di un blocco formato a doverosa e leale difesa dei più alti e sacri ideali e senza dubbio eccellenti. Gli uni sostengono gli altri mutuamente, fraternamente e in tal modo l'ardimento diviene più facile. Ma questo coraggio deve mostrarsi anche se voi, in qualche luogo, in un determinato momento veniste a trovarvi per particolari circostanze in minoranza, in pochi, forse anche soli di fronte ad avversari più numerosi e audaci.

Siete voi capaci a resistere, ma fino all'ultimo, contro di tutti nell'affermazione della legge di Dio, nella difesa della Fede e della Chiesa, dobbiamo anzi oggi di aggiungere, nella tutela dell'ordine del progresso e della pace sociale, ogni qual volta il bene comune richiedesse la vostra collaborazione? Guardate il protomartire Santo Stefano: uno contro tutti fino alla fine.

Egli superava anche in intelligenza e in sapienza i suoi crudeli avversari, che non sapevano rispondere ai suoi argomenti e alle sue prove (Atti, VI, 10). Ecco gli uomini di cui ha bisogno la Chiesa e la società. Non si uccide il Cristianesimo senza sopprimere con lo stesso colpo il cittadino e l'onesto uomo ...»

Non è mai lungo nè tedioso il discorso del Padre comune e ancor meno, la riproduzione delle sue toccanti parole, vuol significare un rimprovero per chi, volendo essere da lui guidato, l'avesse dimenticate oppure avesse svanita l'eco nel suo cuore. Invece potrebbe servire a stabilire, se ve ne fosse bisogno, la continuità e uniformità della dottrina insegnata da Pio XII ai nostri giorni e quella di San Fabiano (240=250) che governò la Chiesa quando, per la fede, patì il martirio la vergine Anatolia e di quella persecuzione fu tra le prime vittime.

Una è la Fede, com'è unico il Battesimo e l'Eucarestia per tutti, e unico è l'Ovile ma vario con i suoi martiri, con i buoni e mediocri cristiani, con i soliti apostati e traditori.

Il primo martire del cristianesimo, Santo Stefano, fu ucciso per la sua intelligenza e sapienza e per i servigi prestati in qualità di diacono ai poveri, alle vedove e ai derelitti della Chiesa. A lui succede una catena ininterrotta di martiri, testimoni della Fede, e anche una schiera di paurosi, di tiepidi traditori e anche di buoni cristiani che hanno assicurato la sopravvivenza della Chiesa.

In questo vario succedersi di generazioni cristiane il nome di Maria Goretti, l'umile contadina marchigiana uccisa nei primi anni di questo secolo per aver difeso la propria verginità, è degnamente vicino a quello di Anatolia, dimostratasi zelante catechista e assunta a simbolo della verginità.

I loro nomi assumono aspetti particolari, nella Sposa del sangue, dove trovano posto quei buoni che scoprono nel Cristianesimo la palestra idonea per santificarsi, come Contardo Ferrini, maestro del diritto ed esempio in ogni tempo per gli infelici che non sono riusciti ad imitarlo o ad emularlo. Dei cattivi e dei traditori se ne sono occupati fin troppo gli altri perchè possano trovar posto in questo profilo e del resto la carità suggerisce di mantenerli in silenzio.

Quasi Aurora rutilante

I primi echi di un evento glorioso, che aveva scosso profondamente l'animo dei Cristiani del III secolo, prendono forme artistiche e insieme solennemente religiose. Tra lo sfolgorio degli ori e tra i vivaci colori dei mosaici dell'arco trionfale di Sant'Apollinare Nuovo, la basilica bizantina di Ravenna costruita nel VI secolo, è riprodotta una teoria di Vergini per rendere completo il corteo del Salvatore, il Pantocratore. Sant'Anatolia e Santa Vittoria, così strettamente unite nella leggenda, si ritrovano insieme nel trionfo di Gesù Cristo.

Ancora oggi in Oriente, a indicare il corrispondente punto cardinale, si usa Anatolì ed è stato pensato che quel nome sia stato attribuito ad una fanciulla, forse plebea e straniera, se non di origine servile, così umile di fronte a quello squillante e romano di Vittoria. L'arte figurativa si era impadronita della sua immagine ed in seguito il calendario popolare, in base a precedenti scritti purtroppo perduti, ne aveva fissata la festa al 9 di luglio: «Nella città di Tyro il martirio dei santi Anatolia e Audace sotto l'imperatore Decio».

Non fu difficile il passaggio del suo nome alla letteratura. Pietro Adelmo nel IX secolo impernierà su di lei l'Elogio della Verginità e, prima e dopo di lui, il nome di Anatolia passerà sulle bocche di Adone, Flodoardo, Vittricio, San Beda il Venerabile, Flodoardo, Notkero e Usuardo. Le gesta di questa Martire si propagheranno quindi in Italia e, al di là delle Alpi, soprattutto in Francia ed in Inghilterra. Ma da noi la fama di Anatolia rimase perennemente impressa soprattutto per merito dei monaci benedettini e specialmente di quelli delle Badie di Farfa e di Subiaco.

Giunti per tempo in possesso della città di Tyro o Tora, i primi affidarono la memoria della loro venerazione per la Martire alle chiese dedicate a Sant'Anatolia in territorio Reatino: in Busiano, in territorio Sabino, in Tore in curtis Vallantis, in S. Maria di Loriano, in Turano, in Cliviano, in Antisiano e Pacciniano, in Usiano ovvero in Italiano.

La ricordarono con una corte detta Taziano, con un campo, con un altro in Massa Capitanea e un terzo che si trovava juxta gualdus (bosco) delimitato dalla strada romana via publica e da un altro lato dal lago, in lacu. Al di fuori di quest'area, facilmente definibile quale territorio dei Reatini, Sabini, Marsi ed Equicoli, i monaci di Farfa propagarono il culto nelle Marche ed a Tivoli, dov'è rimasto fermo ad un modesto altare condiviso con Santa Vittoria nella Basilica di Santa Maria Maggiore da loro ufficiata fin verso l'anno 1250.

Da qui, com'è verosimile, la devozione fu trapiantata, prima del 936, nella Valle Giovenzana, dove le proprietà della Chiesa si mescolavano con quelle del Vescovo di Tivoli, ordinario di quell'area fin verso il XVI secolo. La chiesa di Sant'Anatolia sorgeva in una curtis domnica, vale a dire in un centro agricolo con magazzini, ospizi e negozi cui patite ingiurie avevano portato rovina e costretto gli abitanti ad arrampicarsi per le coste dei monti dentro le più sicure mura di Cerreto e Gerano.

In questa chiesa ormai campestre, nominata in molti privilegi pontifici, il 10 luglio di ogni anno, con un giorno di ritardo sul calendario ufficiale, si commemora il martirio di Sant'Anatolia. E' molto probabile che da essa abbia preso spunto Leone abate di Subiaco quando, non appena giunto in possesso (attraverso carte purtroppo perdute) di beni in Tora, si mise alla ricerca delle reliquie della martire Cicolana, ancor più faustamente conclusa con il ritrovamento anche di quelle di Sant'Audace, suo socio nel martirio, in passione socius.

Rinvenute quelle spoglie, Leone il sanctissimus abbas, audacemente le riportò nei Monasteri di Subiaco riponendo quelle di Sant'Audace nella chiesa di Santa Scolastica, mentre quelle di Sant'Anatolia custodì nello Speco dove San Benedetto in rigorosissima austerità si era preparato alla promulgazione della Regola. E non è privo di significato che in quello Speco da secoli, il monaco che si accinge a legarsi in perpetuo al suo ordine, promette e giura, chiamando a testimonio Sant'Anatolia «di cui il corpo riposa in questa Chiesa» e colpisce inoltre trovare in quel luogo, dove fu meditata la Regola dei Monaci alla quale tutti gli ordini religiosi fanno riferimento, il nome di una Vergine anzi di quella presa quasi come modello di umana Verginità.

Ai Benedettini infine spetta il vanto di aver saputo, con le scarse notizie sparse qua e là, costruire una biografia di Sant'Anatolia. La Badia di Montecassino fu il cantiere e architetto Giovanni Cassinese, prima di dedicarsi agli affari della Curia Pontificia e prima ancora di essere assunto al pontificato ove regnò col nome di Gelasio II (1119). All'organica disposizione dei materiali attesero nel XVII secolo i benemeriti Padri Bollandisti che lo pubblicarono nella loro collezione intitolata Acta Sanctorum. In quelli riguardanti la nostra Martire qualche punto non va ma non per le ragioni addotte dai critici sempre scontenti e onestamente a suo luogo se ne terrà conto senza qui attardarsi.

Vanno ricordati piuttosto gli autori che hanno appositamente trattato alcuni lati della vita di Sant'Anatolia che, disposti in ordine di tempo, sono:

  • Iacobilli «Vite dei Santi e Beati dell'Umbria» (opera stampata nel 1656 a Foligno, tomo 3, volume II, pag. 14=19);
  • monsignor Marini, vescovo di Rieti, nelle «Memorie di Santa Barbara» (Fuligno 1796);
  • monsignor Caponi di Subiaco «Notizie storiche di S. Anatolia Vergine e Martire e di S. Audace martire» (Roma 1852);
  • monsignor Paschini, rettore dell'Ateneo Lateranense, «La passio delle Martiri Sabine Vittoria e Anatolia» (Roma 1919);
  • chi scrive nell'ultima parte del suo studio intorno a «Leone il Gagliardo e gl'inizi della potenza del Sublacense» pubblicato negli Atti della Soc. Tiburtina di Storia Patria, 1937 e 1938 (da pag. 44 a pag. 67 della 2 puntata);
  • Carosi, benedettino della Badia di Subiaco, «Sant'Anatolia Vergine e Martire» (tipografia dei monasteri di Subiaco, senza data).

Quanto è stato detto non è rivolto a dare una rassegna di opere e ancora meno a recensirle o a criticarle, per quanto, in sede di autocritica, è implicito il riconoscimento delle imperfezioni del precedente lavoro spiegabili in un raggio nel quale le notizie su Sant'Anatolia altro non erano che frangia. Resta inteso che quelle imperfezioni ed eventuali errori topografici (che ho cercato nel frattempo di correggere per amore di quella probità che ogni pubblicazione dovrebbe informare) saranno emendati del tutto in questa così impegnativa pubblicazione che ha per argomento unico Sant'Anatolia. Lo scopo prefisso da questa parte introduttiva è un altro: riflettendo su ciò che abbiamo scritto fin'ora spontaneamente veniamo spinti a porci due domande: per quale arcano disegno l'umile o plebea Anatolia è stata tratta dalle zolle della terra di Tora e, come candelabro risplendente, sovrapposta a quello Speco, sacro per le sofferenze e meditazioni di Benedetto da Norcia ?

Fu un gesto inconscio o responsabile quello dei monaci di Subiaco che vollero illuminata per se e per altri da quell'Aurora la via tribolata di sacrifici, al servizio di Gesù, corona dei Vergini e insieme assiepato da cori di Vergini ?

4. II - L'ERA DEI MARTIRI

La Chiesa del Silenzio

Dal giorno in cui il diacono Stefano fu lapidato a Gerusalemme da una folla aizzata dal giovane Saulo (che sulla via di Damasco rimarrà colpito dalla divina Grazia e trasformato in Paolo dottore delle genti) il Maligno ha continuato con i suoi infami attacchi contro la Chiesa, Sposa di Cristo. Con gli aguzzi suoi denti l'ha morsa, sia pure ad intervalli, ma nell'ostinato tentativo di sterminare il nome cristiano.

Già al tempo dei Romani promosse la persecuzione dei fedeli, sia di carattere generale per tutto l'Impero e sia ristretta ad alcuni luoghi, mietendo sempre vittime umane. Il numero di esse non sarà calcolabile da mente umana e siccome l'olocausto era avvenuto in difesa della Fede, tutti i caduti furono chiamati martiri, ossia testimoni. Il lungo periodo, durato circa tre secoli, nel quale la strage di vittime umane, nel nome di Cristo, fu più intensa, fu detta Era dei Martiri. Per comodità, quella prolissa tragedia che ha per sfondo sangue cristiano, è stata scomposta in dieci episodi, quante furono le persecuzioni più violente, e ciascuno di essi è stato unito al nome dell'Imperatore maggiormente responsabile degli eccidi.

Così da Nerone si denomina la prima, da Domiziano la II, la III da Traiano, la IV da Marc'Aurelio, la V da Settimio Severo, la VI da Massimino, la VII da Decio, l'VIII da Valeriano, la IX da Aureliano e la X da Diocleziano. Le persecuzioni cessarono con la promulgazione dell'Editto di Costantino (313), ma anche in seguito, cambiati i motivi ed i paesi in cui le persecuzioni si svolsero, invariato rimase lo scopo degli eccidi di Cristiani.

A volta emulando e talora superando l'efferatezza dei Romani, i ministri del maligno si chiamarono Vandali, iconoclasti, riformati specialmente d'Inghilterra, Giapponesi, Francesi della rivoluzione (con strascichi in Germania della Kulturkampf o in Italia e in Spagna). Russi e Messicani e i seguaci del bolscevismo operanti in Ungheria e in Yugoslavia. Caddero e cadono ancora oggi martiri e confessori della fede e i caduti di null'altro erano e sono rei che della pretesa al rispetto della propria coscienza, del proprio pensiero, della propria fede religiosa.

In un certo modo, l'oppressione fanatica e micidiale, trova una sua spiegazione nell'insegnamento del Divino Maestro che avvertiva i suoi seguaci a non credere ad una vita comoda e facile, ma ad una vita di lotta continua per raggiungere l'affrancamento dell'uomo dalla morsa degli istinti, attraverso i rimedi della vita soprannaturale, per balzare alla vera vita che non è di questo mondo.

La Persecuzione di Decio

La settima persecuzione contro la chiesa, com'è stato detto, fu dovuta all'imperatore Decio. Questi era peraltro un buon generale. La persecuzione durò un paio d'anni e finì solo con la morte in combattimento di chi l'aveva ordita e scatenata. Nonostante sia stata la più breve di tutte, fu la più cruenta e micidiale.

Era giunta inaspettata e si abbattè sui cristiani come un vento impetuoso, sradicando e sparpagliando le comunità di fedeli. Condotta inoltre con astuzia e rigore inconsueti, mietè una gloriosa e abbondante messe di martiri.

Ignoto rimane l'editto di promulgazione ma tristemente nota l'applicazione che ne seguì. Decio aveva imposto a tutti i cittadini una specie di censimento controllato da speciali commissioni. Ciascuno era tenuto a compiere pubblicamente un atto di culto idolatrico attraverso sacrifici rituali, libagioni e incensamenti degli altari pagani e consumazione, insieme con altri, delle carni sacrificate egli idoli.

Chi non si fosse presentato per adempiere le prescrizioni imposte, doveva essere ricercato d'ufficio dai magistrati. Chi vi si fosse sottratto doveva essere sottoposto a processo criminale. Gli si doveva estorcere con tortura l'apostasia dalla fede e non bastando i tormenti il cristiano doveva venire condannato all'esilio o alla morte violenta con la confisca dei beni.

I ministri attuali del maligno trovano, magari con più raffinata perfidia, applicabili quelle norme e quei criteri immutati per lo sterminio della chiesa. Ma torniamo ai tempi di Decio. Tra i gloriosi martiri della persecuzione scoccata qualche tempo dopo nell'Africa Proconsolare, corrispondente all'attuale Tunisia, San Cipriano, vescovo di Cartagine, celebre per la forza dei suoi scritti e molto più per l'eroico contegno conservato nel processo e nel supplizio al quale fu condannato. è pervenuto fino a noi il processo verbale del martirio e qui si riferisce soltanto per quel poco che può far comprendere la sorte toccata ad Anatolia i cui atti del martirio disgraziatamente sono andati smarriti.

Statua in legno di S. Anatolia - Chiesa di S. Nicola

Nel settembre dell'anno 257 due scherani del proconsole andarono a catturare il vescovo in mezzo al suo gregge che, seguito da gran folla di cristiani, fu affidato in custodia ad un centurione. L'indomani Cipriano fu condotto davanti al proconsole e, espletate rapidamente le formalità, succintamente il magistrato gli contestò l'accusa, cui fu risposto senza tergiversazioni o esitazioni. Fu pronunziata la sentenza di condanna all'estremo supplizio, accolta da Cipriano con uno squillante Deo Gratias ! Venne subito condotto nel campo adiacente alla casa dove si era svolto il giudizio e, senza pronunciare parola, il vescovo si svestì degli indumenti esteriori e per brevi istanti si prostrò in preghiera.

All'arrivo del carnefice, ingiunse ai suoi amici di corrispondere a costui un compenso di 25 aurei, si bendò gli occhi da sè e attese per poco il colpo. Dal tronco decapitato del Martire calò per terra sangue vermiglio nel quale il popolo astante inzuppò i lini. Il cadavere fu lasciato lì fino al tramonto e a notte inoltrata, al lume di torce, dai fedeli fu trasportato al cimiero.

Fragilità umane

Non avendo mai sperimentato una prova così dura e improvvisa, la chiesa fu colta impreparata. Non tutti i fedeli la sostennero con spirito cristiano. Moltissimi apostatarono in più modi ma tutti convergenti nel ripudio della religione professata.

Alcuni si limitarono a bruciare granelli d'incenso (in latino Thus) sulle are idolatriche e furono detti i thurificati, mentre altri compirono pienamente i riti pagani e vennero chiamati sacrificati.

Anatolia salva Audace dal serpente
Monastero di S. Scolastica di Subiaco

Con mendicata attestazione di falsa adesione alla volontà dell'imperatore, talaltri si procurarono dalle commissioni di vigilanza (anche a quei tempi si vede non insensibili alla cupidigia del denaro) i certificati, libelli, del sacrificio compiuto contro ogni verità, e si dissero libellatici.

In generale i fedeli, la sancta christiana plebe, quasi mossa da un feno-meno di psicosi collettiva, era rimasta schiacciata e aveva perduto tutti i benefici della vita comunitativa e soprattutto quelli della vita soprannaturale.

Con lo stesso impeto versatile i caduti, lapsi, si misero a ricercare le vie per essere riammessi nella chiesa. Non era facile, data la rigorosa disciplina vigente nel III secolo, ma, per meglio appoggiare il proprio dolore ed ottenere misericordia dal Clero, ricorsero ad un espediente. Ciascuno si faceva rilasciare da coloro che avevano confessato o tuttavia confessavano in prigione la fede cristiana, un'attestazione, libellum. Il rilascio di questi certificati si era generalizzato ed essi avevano bozza così impegnativa per il clero da spingere qualche confessore a elargire in nome di altri confessori la pace per tutti gli sciagurati. Tutte queste notizie andrebbero pacatamente vagliate al lume degli avvenimenti recenti e recentissimi, che mostrano l'uomo facile preda degli istinti, meno dignitosi e monotono ripetitore d'infelici atteggiamenti.

Lo spazio manca e, per quanto con rammarico, si deve ritornare a completare lo sfondo degli avvenimenti impresi a narrare in queste pagine. Più fortunati di tutti, molti cristiani riuscirono ad abbandonare le città, civitates, e a rifugiarsi nelle solitudini delle campagne meno sorvegliate, vagando per i boschi in compagnia delle fiere, meno pericolose per essi degli uomini.

In mezzo alla massa grigia e informe, risaltano, impavidi testimoni della fede, i martiri. Primo tra i primi, il vescovo stesso di Roma, San Fabiano papa, morto il 20 gennaio 250. Era a capo di una fiorentissima comunità, come traspare da documenti appartenenti al periodo immediatamente successivo, i quali possono ritenersi il bilancio della persecuzione di Decio.

Era composta da una massa incalcolabile di poveri e da più che millecinquecento tra vedove e orfani che, per grazia di Dio e carità di ricchi numerosi e ben provvisti, era interamente sostenuta e mantenuta. Oltre al vescovo attendevano al pascolo del gregge 46 sacerdoti (presbyteri), 7 diaconi, 7 suddiaconi, 42 accoliti, 52 esorcisti, lettori e ostiari. La violenza che la squassò dovette esser tale da impedire per circa sei mesi l'elezione del successore di San Fabiano. A Roma, in Italia e altrove, i martiri caddero nel proprio sangue per spada, per fuoco, per belve, per unghioni di ferro, per aculei, tormenti, patiboli e strumenti i più svariati che solo la perfidia umana riesce a inventare e a manovrare. Tra le vittime di quell'orribile persecuzione caddero appunto Anatolia e Vittoria, vergini, e Audace che della prima sarebbe stato il boia senza il prodigioso intervento di lei che egli volle intensamente imitare nei patimenti.

5. III - ANATOLIA E VITTORIA

Due 'Sorelle' Romane

Anatolia - Chiesa di S. Anatolia a Percile

In quel tempo vivevano a Roma due fanciulle, Anatolia e Vittoria, entrambe di nobile stirpe e ricchissime, ed erano sorelle, sorores. Preso il vocabolo troppo alla lettera, esso non regge all'incalzare degli avvenimenti che tra poco racconteremo, e abbiamo dovuto pensare ad un significato diverso e veramente alquanto forzato.

Affermeremo quindi che, anzichè di genitori comuni, si fosse trattato di un'unica nutrice e che le due fossero sorelle di latte, collactanee. Però se si insiste nel precisare la rispettiva parentela, naturale di sangue o artificiale di latte, le ragioni emergeranno in seguito. Non si è badato in questa sede ad una notizia contenuta in una lettera del II secolo diretta alle Vergini attribuita a S. Clemente nella quale il termine sorelle è usato per indicare quelle giovani cristiane che in verginità si dedicavano al servizio di Dio. Tali possono ritenersi Vittoria ed Anatolia e, precisata questa circostanza, neanche varrebbe la pena confutare quegli zelanti araldisti medievali che da loro fecero discendere alcune nobilissime famiglie romane come gli Anici e i Frangipane. Bastano al riguardo questi semplici rilievi: non si conoscono i nomi dei loro genitori, si ignora se avessero parenti ed entrambe furono uccise in stato verginale.

Educate fin dalla culla alla fede da genitori cristiani Anatolia e Vittoria la custodivano gelosamente come un tesoro, attenendosi con ogni riservatezza all'osservanza dei divini precetti e alle pratiche di religione nell'intimità delle proprie case. Era una misura prudenziale dovutasi adottare a causa dei tempi contrari determinati dalla persecuzione contro i cristiani.

La loro età presumibile era di vent'anni, avevano un aspetto decoroso e, a quanto si riferisce, erano molto ricche. Si trovavano nella condizione ideale per richiamare, molto per tempo, l'attenzione dei giovani coetanei, di uguale fortuna economica. Rapiti dal fascino delle fanciulle, due giovani amici se n'erano perdutamente innamorati. Eugenio, di famiglia illustre e potente, di Vittoria, Aurelio Tito, di stirpe regia e ricchissimo, di Anatolia. Alcune nobili matrone romane si prestarono a manifestare alle due verginelle i sentimenti amorosi dei giovani, sollecitandone corrispondenza e questi cominciarono ad avere qualche lieve speranza di future nozze. Specialmente Eugenio non aveva incontrato gravi ostacoli nel fidanzamento con Vittoria, al contrario di Aurelio Tito il quale aveva trovato Anatolia ritrosa già di per sè all'unione matrimoniale e quel che era peggio con un pagano. Ella con i più svariati pretesti tendeva a guadagnare tempo, prima di decidersi ad un passo così scabroso per la sua coscienza e il suo corteggiatore, deluso e insieme stimolato, sollecitava con calore l'amata a stendergli la mano per uscire dall'inferno in cui aveva adagiato il suo cuore.

Elogio della Verginità

Anatolia, ritenendosi incapace di resistere con le proprie forze all'impari cimento nel quale era stata trascinata, di giorno e di notte fervorosamente implorava Gesù Cristo di venire in suo soccorso ritenendola salda e stretta alla sua grazia e di stornare le paventate nozze. Al fine di meglio predisporre il divino aiuto, un giorno occultamente distribuì ai poveri quant'ella possedeva di oro, argento, gemme e vesti preziose per farne recapitare, il valore mediante le loro mani nei tesori del Cielo.

Nella notte seguente Anatolia ebbe una visione. Un angelo le apparve coperto di vesti d'oro, con il capo cinto da un luminoso diadema ed con il volto eguagliante la luce stessa del sole.

L'angelo benignamente fissandola con il proprio sguardo così le parlò: «Santa e Beata Verginità ! O sposa dell'eterno sposo, incapace di corruzione e di affanno, nè da morte soggetta, vicina a Dio ch'è vita immortale. Vero tesoro pieno e ricolmo d'oro e di ricchezze, che ladro non ruba, tarlo non rode, nè ruggine mangia. Grande è la gloria di che tu sei cinta, o Anatolia, per ciò, di quanti e quali ricchezze tu sovrabbondi, sollecita custodiscile, e gelosa conserva. Vigila su di esse per non esserne spoglia e priva della ricchissima gloria apparecchiata da Dio nei Cieli».

Chi negherebbe la sovrana forza di una visione così stupenda ? La fiamma dell'amore e l'impazienza dell'indugio, fece sì che Aurelio Tito si mise a cercare qualunque strada, adoperando lusinghe, carezze e minacce, pur di rompere ogni ritardo. Venne così a sapere che la vera causa del rifiuto non era già la malattia, ma la religione di Cristo professata da Anatolia.

La scoperta come un'aguzza spina penetrò nel cuore contrariato del giovane, che ne pianse, arse di sdegno, sbuffò di rabbia e, in mezzo a questa bufera di passioni, cercò la via giusta da seguire in quel frangente. «Svelerò al magistrato la fede di Anatolia - rimuginava tra sè e sè - Se la denunzio però come cristiana, Anatolia soffrirà inenarrabili pene e forse la morte ! Ed io ? Certo non potrei più sposarla. Tanto vale allora che continui con carezze e con lusinghe ad accattivarmi la sua simpatia per schiantare dal suo cuore la Fede Cristiana».

E questi rimuginamenti, trepidazioni e speranze, esternò e confidò all'amico Eugenio, più fortunato dell'amico e persuaso almeno che la sua fidanzata gli corrispondesse in amore. Malinconico e addolorato, Aurelio Tito gli si presentò e tra i singhiozzi gli narrò che Anatolia ricusava di esser sua e con lacrime agli occhi a lui si raccomandò e lui scongiurò perchè lo soccorresse e lo aiutasse. Meravigliato e stupito, Eugenio, che per certi segni aveva già sperimentata e provata l'amicizia del suo interlocutore, lo dissuase dall'insistere con le lacrime e con le suppliche, rassicurando fermamente che lo avrebbe aiutato.

Nè morte, nè ira di nessuno, lo avrebbe distolto dall'eseguire ogni comando dell'amico. A questo incoraggiante discorso, Tito Aurelio aggiunse: «Fa in modo, o Eugenio, che Vittoria tua sposa e sorella di Anatolia, a costei si presenti e adoperi lusinghe e carezze e ogni arte per indurla ad unirsi in matrimonio con me adempiendo la promessa». «Nulla di più naturale - replicò Eugenio - di quanto tu mi chiedi, io farò quel che desideri».

Subito recatosi da Vittoria le narrò il fatto e con ogni argomento la confortò, persuadendola a compiere l'incarico di piegare Anatolia alle richieste del suo caro amico. In vista del pericolo che sovrastava la vita della sorella colei premurosamente accettò l'incarico e si recò a trovarla e così le parlò: «Sono venuta, cara sorella, ad ora inaspettata e forse inopportuna. Mi ha spinto il vero amore che ho sempre nutrito per te e questo soltanto mi pone sulle labbra le parole che sto per dirti. Per quanto ricordi della tua vita passata, mai un'azione o una parola, sebbene insignificante, non è stata ispirata dal consiglio, regolata da prudenza e animata da quell'amabile ingenuità che così profondamente ti distingue da ogni altra fanciulla. Mi è giunta alle orecchie una novità che mi riempie di strana meraviglia e mi fa chiedere a me stessa con quale animo, per qual fine e da qual consiglio regolata, tu vai ricusando promesse nozze e rifiuti lo sposo. Accogli, te nè prego, accogli di buon grado il mio consiglio e arrenditi alle mie parole. Non restare ferma al tuo convincimento di eseguire quel che ti sei proposta. Abbandona quella tua risoluzione la quale, seguendo proprio di tua mano, ti daresti la morte: ascoltami. Se Gesù Cristo medesimo comandò di fuggire dai perseguitori e così ottenne scampo, perchè mai tu le persecuzioni desideri, anzi ad esse vai incontro ? Volgi, cara sorella, gli occhi alle crudeli sventure di questa misera età: scorgerai i guai dei nostri, le fughe, i nascondigli, gli spietati supplizi, le prigioni, gli esili. Porgi sollecito ascolto ai miei detti e a quell'Aurelio Tito, uomo illustre e sommamente potente ed al quale tu, richiesta, ai dato parola e promessa, concedi per il tuo bene finalmente la mano di sposa».

Vittoria parlava interrompendo il discorso con qualche acuto sospiro e bagnando le gote di lagrime mentre in Anatolia, l'amore di Gesù Cristo, aveva spento ogni amore profano.

Benignamente guardandola e sorridendo ella così rispose: «Mia cara sorella, tu dottamente e prudentemente hai parlato e con argomenti di cristiana ti sei sforzata di persuadermi di andare a nozze pur col corruttore della mia fede. Ascoltami e di ciò che in segreto ti dirò fanne, te nè prego, nella tua mente tesoro.

Il tuo stesso nome mi favorisce l'esordio. Tu sei veramente Vittoria e a dimostrazione del significato di esso io ti esorto a vincere il Demonio. Per mezzo del suo Verbo, Dio padre onnipotente, da principio, traendo tutte le cose dal nulla e avendo creati già gli altri animali, di fango dalla terra, formò l'uomo animale ragionevole e a lui conferì signoria e comando di tutte le altre irragionevoli creature. Lo collocò, avendo tutte le altre cose disposte nei propri luoghi, nel Paradiso terrestre. In seguito lo unì dandogli Eva per moglie. Ed essendo i due solitari e volendo Iddio che tutto il mondo si popolasse di uomini, impose alla prima coppia umana, di crescere e moltiplicare, di dare alla luce dei figli e di riempire la terra.

Il Signore onnipotente Gesù Cristo, verbo del padre, per il quale ogni cosa fu fatta, si degnò di scendere dal cielo in terra per salvare noi uomini. Senza cessare di essere quel Dio ch'egli era, si degnò di prendere carne nostra dalle viscere dell'immacolata Vergine Maria cominciando ad esser uomo che prima non era. Egli fu vergine e sopra tutti amò chi vergine si mantenne. Così, come si legge nel Vangelo, a preferenza d'ogni altro discepolo amò Giovanni al quale accordò nella Cena riposo sul proprio petto. Nell'epoca anteriore a quella del Vangelo, se vuoi che io cominci da più lontano, erano piaciuti a Dio, Profeti e Patriarchi: ma Elia solo, siccome vergine, asportò e richiuse in cielo. Anche prima che Cristo nascesse dalla Verginità, agli occhi di Dio si cara fu la verginità che colui che vergine fu, volle rapito in cielo sopra un cocchio di fuoco. E Cristo una Madre ma sempre vergine si scelse. Quanto più gloriosa deve riputarsi adesso che è coronata regina del cielo medesimo e degli angeli e degli uomini ? In lei la gloria verginale fu elevata sopra gli angeli veramente, come fu collocata alla destra del Padre nella cena di Cristo».

Queste parole Vittoria interrompendola disse: «E che voi sole vergini dunque possederete il Cielo ? Le maritate e le vedove andranno perdute ?».

«No - replicò Anatolia - anche per maritate e vedove è stabilito un posto in Cielo, e per esse vi è una propria palma e la luce e il glaudio e la corona. Però la gloria più bella e più luminosa sarà concessa solo a coloro che seguendo Cristo si manterranno vergini. Alle spose vergini è dato godersi lo stesso Verbo del Padre e a contemplare più da vicino il volto stesso del Padre. A te queste parole forse sembreranno al di là di ogni fede. Io invece, se lo desideri, ti preciserò come e dove le ho conosciute e apprese». «Ma certo - Vittoria si affrettò a soggiungere - ardentemente bramo apprendere tutte quelle cose».

«Dopo ch'io ebbi venduto - riprese Anatolia - ori, argenti, gioielli e vesti preziose e n'ebbi dispensato il prezzo ai poveri, ebbi un sogno. Nella notte seguente mi apparve un giovane coronato di un diadema d'oro, molto più risplendente di questo sole, ricoperto dal capo ai piedi di vestimenta d'oro, tempestato di gemme. Nella pienezza della sua luce a me si volgeva guardandomi con occhio fisso e cominciò ad elogiare la santa verginità, sposa del re e non soggetta a dolore e a corruzione. La chiamava luce che tenebre non varranno ad offuscare. Gloria che confusione non macchia, nè passione qualsiasi deturpa. Incapace di morte, fonte di vita, la verginità siede in cielo vicino alla vera ed eterna vita che è in Dio.

Alla stupenda visione e a quelle meravigliose parole rallegrata io mi risvegliai. Però chi meco parlava, come un lampo sparì e presa da immensa malinconia, mi prostrai in terra e con singhiozzi e con lagrime scongiurai Dio perchè della visione sparita di nuovo mi confortasse. Quand'ecco, oh gioia ! Quel caro giovane a me non più dormendo, ma desta, ricomparve e con vera voce cominciò a parlare. La verginità, mi andava ripetendo, è la porpora del vero Re, la gemma più bella della corona reale, l'eterno tesoro ricco d'oro e di gemme contro di cui nulla può frode verun dei ladri, nè può logorare vecchiezza nè ruggine. oggiungeva: queste sono le tue ricchezze, questa la tua gloria, che mai potranno esserti sottratte. A motivo della verginità sarai gloriosissima dinanzi a Dio.

Più e più volte l'angelo mi rincuorò a custodirla gelosamente e prontamente. Fin d'allora, cara sorella, fui presa da amore si forte per la verginità, che bramerei perire di morte la più tormentosa, piuttosto che tralasciare il santo proposito di esser Vergine».

Martirio di Anatolia - Chiesa di S. Nicola

Finito ch'ebbe Anatolia di parlare, Vittoria le cadde ai piedi e genuflessa implorò perchè le facesse vedere lo stesso giovane apparsole.

A sua volta colei assecondando il desiderio dell'amica, s'inginocchio e fervorosamente supplicò Dio che si degnasse di rinnovare la visione e, nel mentre ambedue pregavano, ecco che l'Angelo del Signore comparve loro risplendente. A quella vista, prese da grande timore, ambedue le donzelle caddero a terra senza poter proferire parola. Ma l'angelo confortandole le disse: «Dio non vi ha preparato la corona se vergini non vi manterrete». Vittoria, oltremodo lieta, preso coraggio, all'angelo domandò: «Qual è nel cielo la gloria delle vergini ? Com'è diversa da quella che ottengono le maritate e le vedove ?». L'interpellato lo svelò benignamente, e alle sue parole raddoppiò nel cuore della giovane la fiamma dell'amore per Gesù Cristo.

Attraverso la riproduzione quasi testuale di quanto si conosce intorno alle due giovani, viene chiara l'impossibilità fisica per esse di essere sorelle e il significato della parola sorella adottato nei loro confronti è quello genuinamente cristiano, indicato dalla lettera attribuita a S. Clemente, vale a dire di fanciulle votatesi alla verginità per meglio servire Dio.

A questa splendida virtù la letteratura dei primi cristiani aveva tributato meritati elogi e ne avevano già scritto Origene, Tertulliano, lo stesso S.Cipriano oltre a S. Clemente nella sua menzionata lettera.

S. Anatolia a Castel di Tora

Più matura di giudizio e in possesso di una dottrina limpida e di una fede incrollabile, Anatolia sta su un gradino lievemente superiore a quello che si intravede occupato da Vittoria. Chi oserebbe contestare che quella purezza di dottrina non sia conservata in quella dei nostri giorni ? E chi non vede nelle affermazioni di Anatolia intorno alla verginità il germe fecondatore della parte più bella della vita cristiana che è il monachismo?

Due sposi immaginari

Tornata a casa Vittoria imitando l'esempio di Anatolia, distribuì oro, argento e vesti preziose ai poveri per essere vera sposa di colui che essendo ricco, come dice l'apostolo, si fece povero affinchè noi poveri diventassimo ricchi delle sue celesti ricchezze. Eugenio non tardò a risapere i particolari dell'episodio e mesto angosciato corse dall'amico Aurelio Tito, glieli narrò e insieme studiarono le misure da adottare: «Se le accusiamo come cristiane ai Magistrati - andavano ragionando - le due fanciulle andrebbero messe a morte e i loro poderi sarebbero confiscati con esclusivo beneficio dello Stato. Toccherebbero invece a noi se, rifiutandosi Anatolia e Vittoria di acconsentire ai nostri desideri e sfinite dai patimenti, finissero di morte naturale».

I due nobili giovani trasportarono le immagini della rispettiva fanciulla dall'empito del cuore nel gelo di menti calcolatrici e, in questo loro brusco passaggio, si trovarono pienamente in accordo e solidali e si presentarono all'Imperatore. Gli chiederono, in via di grazia, di poter mettere sotto la propria potestà Anatolia e Vittoria, loro rispettive spose, con piena facoltà di trasferirle da Roma in campagna. Decio annuisce e, lietissimi per la grazia ottenuta, l'uno relegò Vittoria sua sposa in una villa situata nel territorio di Trebula Mutuesca, oggi corrispondente a Monteleone di Spoleto, mentre l'altro trasferì Anatolia nei pressi dei suoi poderi in vicinanza della città di Tora.

Quando si incontra nelle antiche storie il nome di città, si galoppa con la mente alle odierne metropoli tentacolari e popolate da milioni di abitanti. Niente di meno preciso: le città romane erano un'accolta di cittadini ammessi al pieno godimento di diritti. Fuori di esse non esisteva che un insieme di campi, di pascoli e di selve non sempre e non completamente coltivati dalla mano dell'uomo, destinati all'allevamento del bestiame, a residenza dei coloni, di schiavi e di addetti alle aziende agricole e anche a luogo di piacere per i signori.

Tora era una città appunto perchè i suoi abitanti erano cittadini romani. Aveva un territorio popolato di aziende agrarie e di ville dove i signori trascorrevano i propri ozi o, come oggi si direbbe, le vacanze.

Basta per adesso sapere che stava in vicinanza del lago Velino (e anche qui bisogna fare attenzione per non sbagliare circa l'ampiezza del bacino) ed era di antichissima origine. Aveva un santuario funzionante fin dai tempi dei Pelasgi, una popolazione della quale gli archeologi non riescono ancora a svelare il mistero. Il suo santuario era celebre quasi come quello di Dodona (una città della Grecia) in cui una colomba, dall'alto di una quercia, dava il vaticinio. Questo incarico invece a Tora, era stato affidato al Pico, l'uccello sacro degli antichi (che poi dette il nome all'intera provincia che si chiamò il Piceno) il quale dalla sommità di una colonna, dava l'oracolo ai pellegrini.

Nel tempio si prestava il culto a Marte, la divinità pagana dai greci chiamata Thirios Aris, che dette il nome alla città denominata appunto Tirios e nel medioevo Tiora. Per quanto esca fuori dello scopo principale di questa narrazione, bisogna, una volta accennatosi a questi particolari intorno a Tora, concludere la vicenda di Vittoria. La giovinetta costantemente soffrì tutto ciò che di più doloroso le imponeva il suo aguzzino, coadiuvato da scherani locali, e si mantenne fedele fino al supplizio. La sua beata morte venne esaltata nel Martirologio Romano sotto la data del 23 dicembre con queste parole:

«Non volendo marito e neppure sacrificare agl'idoli, dopo aver fatti molti miracoli, con i quali aveva racolto a Dio moltissime vergini, finalmente, a istanza del barbaro ed ingrato suo sposo, con una stoccata al cuore fu uccisa dal carnefice a Roma».

6. IV - DEPORTAZIONE A TORA

Dono e fama di miracoli

Anatolia, esiliata da Roma e priva di ogni sollievo di parenti e di amici, lontana dalla patria e dalla casa, spogliata di ogni ricca proprietà toccatale come retaggio paterno e materno, appariva infelicissima agli occhi del mondo. Questa grande miseria e sventura però veniva abbondantemente compensata con la dolcezze del divino amore e con la certa speranza nei godimenti celesti. L'infelice prigioniera privata perfino, ad opera dei malvagi servi e ministri dell'iniquo Tito Aurelio, del necessario alla vita, si alimentava con la divina parola.

Suo unico pane e cibo sufficente per la sua fame era Cristo. Cristo era la sua patria, e Cristo era l'indivisibile compagno che mai si staccava dal fianco della donzella sua sposa. Anatolia si consacrò ad una continua preghiera e, non contenta delle ore del giorno, trascorreva vegliando intere notti, reputando le sofferenze fisiche, da altri inflittele per causarle patimento e miseria, sua dolci consolazioni e sua vera gloria. In questo periodo apparentemente triste, Iddio che esalta gli umili, la rese per virtù di prodigi, splendida e gloriosa agli occhi del mondo.

 

Anatolia compie un miracolo - Chiesa di Gerano

 

Anatolia salva Audace - Chiesa di Gerano

 

In quel tempo governava, come console, l'intera provincia Picena, un uomo nobilissimo di nome Teodoro o Diodoro, che aveva un figlio di nome Aniano che, invaso dal maligno, si lacerava le vesti e si strappava le carni e, urlando ferocemente quasi fosse una bestia, tutti muoveva a pietà. Questo giovane, o più veramente, lo spirito immondo, per sua bocca, con voce spaventosa simile a tuono, più e più volte andava gridando: «O Anatolia, con le tue preghiere tu mi bruci!». Teodoro, uomo tutto pagano e cieco idolatra, sperava di restituire a suo figlio la salute con le sporche pratiche del gentilesimo e, allo scopo, offriva incensi agli idoli e sacrificava vittime al Demonio mandando Aniano in pellegrinaggio per i diversi templi più famosi dei numi.

Un giorno, stretto da catene e in folta compagnia diretto a Tora, dove sorgeva un tempio rinomatissimo dedicato a Marte, questi stava attraversando l'orrido deserto nel quale Anatolia, tutta assorta nelle preghiere, conversava con Dio. Non appena il maligno, che da lungo tempo lo andava agitando, presentì la santa fanciulla, rotti i ceppi e acutamente ruggendo, corse avanti e gettatosi ai piedi di lei, con voce più terribile del consueto, grido: «Tu sei Anatolia ! Tu sei quella che con le fiamme delle tue preghiere mi bruci !».

Quale non fu lo stupore dei presenti quando la santa vergine prima soffiando imperiosa sopra il fanciullo, poi volgendosi al maligno proferì queste parole: «Io ti comando, immondo spirito, nel nome del mio Signore Gesù Cristo, esci fuori immantinentida quest'uomo !». E all'istante il maligno uscì. Gli astanti videro liberato il fanciullo e sollecitamente portarono la notizia a Teodoro al quale Aniano stesso giulivo raccontò come e da chi avesse recuperata la pristina salute. Si fece una grande festa per tutta la provincia e da ogni parte veniva la gente a congratularsi con Teodoro e, nell'ammirazione del prodigio, dovunque il nome di Anatolia era portato in cielo.

Teodoro non fu ingrato alla sua benefattrice, ma accompagnato dalla moglie e dai figli e da tutta la famiglia, andò a Tora a ringraziare Anatolia ed a offrirle ricchi e preziosi doni. Quando costei ebbe davanti tutti quanti, predicò la fede e la legge del Salvatore e ai propri ascoltatori raccomandò la salvezza delle loro anime.

Volle pure che i ricchi regali offertile, venissero distribuiti ai cristiani poveretti dicendo, quanto a sè, di non aver bisogno di nulla.

Gesù largamente la provvedeva del necessario su questa terra e nel secolo futuro le avrebbe dato un regno eterno in Cielo ed una eterna vita non più funestata nè da miserie, nè da sventure, ma ridondante di luce, di gaudio e di allegrezza. «Tu poi - aggiunse rivolta a Teodoro - lascia il culto dei demoni, e credi al vero Dio onnipotente e ti salverai».

La ragion di stato avversa i miracoli

Frattanto la fama del miracolo si era sparsa da per tutto ripetendosi il nome di Anatolia. A lei ricorrevano a frotte lunatici ed energumeni. A lei si conducevano infermi di ogni genere di malattia e dati già per spacciati dall'arte medica. A tutti quanti, con la preghiera in nome di Gesù Cristo, restituiva la sanità ed esortatili a credere li rimandava a casa.

A tanto rumore di prodigi diffuso in tutta la provincia Picena e anche altrove, le genti si convertivano alla religione cristiana con tanta affluenza che ormai i templi degli idoli erano non curati e deserti. I sacerdoti pagani indispettiti rivolsero le più alte lagnanze all'imperatore Decio che, nemico giurato del cristianesimo, arse di sdegno. Chiamato a sè un uomo scelleratissimo di nome Festiano o Faustiniano, lo spedì come giudice a Tora, imponendogli rigorosamente di costringere Anatolia a forza di tormenti, a sacrificare ai numi o, al suo rifiuto, la condannasse pure a morire di spada. Il magistrato non ebbe indugi e, per mezzo dei suoi sgherri, fatta stringere Anatolia con ceppi e avutala dinanzi, guardandola con bieco sguardo, le disse: «Tu sei quell'Anatolia che vai persuadendo i popoli a disprezzare la pietà e la religione dei Numi e ad adorare invece come Dio un non so quale uomo già messo a morte dai suoi stessi compaesani ?» - «Son io» rispose Anatolia. E Festiano: «Sacrifica agli Dei che la manifesta divinità prova di esser dei». «Non sacrifico agli idoli - replicò Anatolia - i quali fabbricati dalla mano dell'uomo e privi di sentimenti, hano orecchie e non odono, hanno bocca e non parlano, hanno narici e non sanno odorare, hanno piedi e non camminano».

«No ! - gridò Festiano - con la tua alterigia non disprezzare i comandi degli Augusti a quali tutto il mondo è soggetto». «Ai tuoi Augusti - riprese Anatolia - e a tutti quelli che loro obbediscono è dovuto un fuoco eterno ed una pena senza fine nella quale saranno eternamente tormentati a causa delle loro scelleratezze».

A tali parole, divampando per la collera, Festiano gridò più forte: «Tormenti perpetui e fuoco eterno, o ribalda, tu minacci agli Augusti, e a noi cui è merito obbedirli ? Sappi, sciagurata, che se presto non sacrifichi e non obbedisci agli Imperatori, tu stessa per prima e tormenti e fuoco o incendio sul tuo corpo sperimenterai».

«Fa quel che vuoi - rispose Anatolia - io non sacrificherò mai ai demoni, nè per minaccia nè per qualsiasi supplizio mi muoverò dal mio proposito». Festiano allora comandò che la santa vergine venisse sospesa nell'eculeo e tormentata.

Nè i barbari persecutori tardarono l'esecuzione dell'ordine anzi, crudelmente la straziarono e con fiaccola accesa andavano bruciando i nudi fianchi di lei e la schernivano gridando: «Sacrifica ai Numi, secondo l'ordine del principe e poi te ne andrai libera dove vuoi». Tutta lieta e serena Anatolia, quasi riposasse sopra un letto di rose, rispondeva loro: «Miseri e infelici ! Per breve ora io sento il dolore nel corpo ma eternamente poi godrò con il mio Dio. Voi all'opposto se non vi convertirete alla fede del mio Signore brucerete, insieme con i vostri Numi in un incendio sempiterno !».

Una fermezza così eroica indispettì Festiano che si mostrò vile oltrechè disubbidiente agli ordini dell'Imperatore.

Egli volendo punire la santa fanciulla con lo stesso supplizio al quale nell'antica Roma venivano soggetti i parricidi, la condannò ai veleni. Chiamato a sè un famoso mago che usava serpenti velenosi per ammaliare e uccidere le genti, gli affida l'incarico.

Audace 'il Marso'

Quell'uomo si chiamava Audace e apparteneva al paese dei Marsi, peritissimi e potentissimi nel'impiego di siffatte malie. «Audace - gli dice - prendi tu questa empia strega incantarice che con i suoi prestigi porta ognuno all'errore, chiudila insieme con i tuoi più velenosi serpenti entro un sacco di cuoio e uccidila, ed io ti farò ricco di molto denaro e diventerai mio primo intrinseco amico».

«Signore - rispose Audace - non occorrono molti serpenti, un solo serpente le aizzerò e la strega morrà senza fallo». Avuta in suo potere la santa giovane e messo un serpente, il più micidiale che avesse, dentro un sacco di cuoio, ve la rinchiuse.

E qui Dio dimostrò di nuovo la sua speciale assistenza verso i suoi santi e come egli sappia ammansire le bestie più feroci confondendo i suoi nemici e conducendo in tal modo alla fede gli idolatri più ciechi.

Anatolia, chiusa in quel sacco, con quella bestia velenosissima, sciolse il labbro in un cantico di lode al Signore e nella preghiera trascorse l'intera notte senza che il serpente, divenuto domestico e mansueto, ardisse toccarla col venefico suo morso.

Audace, che conosceva molto bene l'indole e la natura del suo strumento, ritenne che il serpente alla chiusura stessa del sacco avesse subito morsicata Anatolia uccidendola. Tuttavia indugiò fino all'alba del giorno seguente, non tanto per assicurarsi che la suppliziata fosse morta, com'egli riteneva certissimo, quanto per recuperare con la luce del giorno il serpente micidiale. Dopo avere invocato i suoi demoni e i suoi dei, cioè Mercurio al quale nel cadduceo Giove aveva concesso il potere della vita e della morte e Pallade la quale ha per insegna la ferocissima Gorgone, perchè lo scampassero dal furore e dai morsi del serpente rinchiuso, aprì il sacco di cuoio.

Qual non fu il suo stupore ! Ecco Anatolia piena di vita e sorridente. E qual terrore l'incolse allorchè il serpente, ridiventato ferocissimo, gli saltò al collo, glielo accerchiò e fieramente con i morsi lo lacerava. Se non fosse accorsa in suo aiuto Anatolia che prese in mano il serpente e gli disse: «Io ti comando in nome di Gesù per il quale patisco queste cose, parti di qui e vattene al tuo posto !». Mansuetissimo il rettile, quasi avesse intelligenza ed udito, se ne andò via e Audace, trasecolato e toccato nel cuore dalla grazia divina, incominciò a gridare ad alta voce: «Veramente Gesù Cristo è Dio, nè esiste altro Dio fuorchè lui !».

Fu riferito questo mirabile avvenimento e la conversione di Audace a Festiano il quale, altamente meravigliato, a sè lo chiamò e gli disse: «Cosa mai mi fai sentire ? Non mi avevi promesso che avresti tolta la vita a quella ribalda con i morsi dei tuoi serpenti ? Come va che, non solo non hai mantenuto la promessa, anzi hai abbandonato la religione dei Numi e sei diventato perfino compagno di lei nella follia ?».

A queste parole Audace replicò: «O Festiano, so quanta fierezza stia nel morso dei miei serpenti e di qual forza sia il veleno di essi e appunto per questo io confesso il nome di Gesù Cristo e adoro la sua maestà. E poichè il serpente da me usato era micidialissimo e non riuscì ad offendere la serva di Dio, mentre con il suo contatto avrebbe potuto dare morte anche in un attimo a qualunque animale avesse morsicato. Ebbene racchiuso con lei nel sacco di cuoio per tutta la notte, non ebbe ardire di toccarla. In più, senza il soccorso di Anatolia, avrebbe ucciso con i suoi morsi me stesso, che son solito con medicine e incantamenti medicarne la rabbia».

«E che - rimbeccò Festiano - se con incantesimi più potenti dei tuoi smorzò l'ira del serpente, dovevi tu per questo uscire subito nelle grida ed invocare scelleratamente il nome di Cristo ?». «Credimi Festiano - ripigliò Audace - i nostri Dei, come dice la santa vergine, sono demoni. Sebbene li abbia serviti fin dall'infanzia, quand'io aprivo il sacco pur avendoli invocati, non vennero in mio aiuto e il serpente, irritato di più dalle mie invocazioni, come ho detto, si avventò a ad onta della mia arte magica, se non lo avesse raffrenato la santa verginella, mi avrebbe tolta la vita. Il vero Dio, il vero Dio è Cristo ! Alla cui servitù consacratasi Anatolia, nè potè essere offesa dal serpente, nè permise che altri ne restasse offeso».

«Pazzo che sei Audace - replicò Festiano - per questo parli così ?». «Fui pazzo veramente finora ! Adorai statue mute e sorde e prestai culto ad esse quasi dessero la vita ad altri che non l'hanno e ne implorai il soccorso. Ora che riconosco e credo e confesso il vero Dio, veramente sono savio». «Rinsavisci - disse Festiano - e rinnega il nome scellerato e perseguitato dagl'Imperatori. Affrettati a placare con sacrifici gli Dei perchè ti perdonino le ingiurie di cui li hai gratificati».

Audace però fermo e costante rispose: «Fa' di me quel che vuoi. Mai sacrificherò agli idoli». «Abbi pietà almeno dei tuoi figli - incalzò Festiano - della tua moglie e di te stesso, che volontariamente condanni a morte». «Non esiste premura o pensiero veruno di moglie. O conosciuto il vero Dio e a lui mi sono consacrato, non lo abbandonerò più».

Festiano, accorgendosi così che nè per minacce nè per lusinghe rimuoveva Audace dall'amore e dalla confessione per Cristo, comandò di rinchiuderlo in una oscura prigione in compagnia di Anatolia. Di questo mezzo, Dio si servì perchè il valoroso prigioniero fosse istruito nelle pratiche e nella dottrina della Religione Cristiana.

Il prezzo della follia della croce

Giorno e notte la santa donzella lo ammaestrava e lo esortava alla pazienza e tanto grande riuscì la fiamma dell'amore di Dio che riuscì a suscitargli nel cuore da spronare il convertito Audace, giubilante insieme con lei del patire per il nome di Cristo, a far risuonare il carcere d'inni e di lodi di ringraziamento a Dio. Maggior odio crebbe nel cuore di Festiano, insofferente di più per tali cose, da portarlo a scrivere la sentenza di morte.

Non dice l'antico scrittore con quale genere di supplizio l'atleta della fede fu fatto perire, limitandosi solo a dire che battezzato nel suo sangue Audace volò al Signore.

Fa capire però due particolari: nella prigionia Audace, per mano di Anatolia non aveva ricevuto ancora il battesimo che a lui riservava dopo più ampia istruzione: può ritenersi che la sua morte fu dovuta a spada. Il Martirologio indica la data del martirio al 9 luglio, ma seguendo Pietro Adelmo, evidentemente ispiratosi agli Atti autentici della passione, è da ritenersi che la morte di Audace sia avvenuta poco prima di quella di Anatolia.

I cittadini di Tora continuarono a raccomandarsi alle preghiere dell'incarcerata donzella e continuò per sua intercessione la serie di splendidi prodigi. Venivano condotti infermi e indemoniati da lei e tutti immediatamente venivano liberati da ogni male e moltissimi, abbandonati gli idoli, si facevano cristiani.

Così grande era il numero dei convertiti da far temere a Festiano che la maggior parte del popolo abbandonasse la religione pagana. Ricominciò a smuovere Anatolia dal suo proposito e dalla fede ricorrendo alle carezze e alle più splendide promesse.

Cercò di spaventarla mostrandole dinanzi agli occhi i tormenti più crudeli, ma invano, e disperando di vincerne la costanza, ne affrettò la condanna a morire per mezzo di spada. L'esecuzione doveva avvenire, per evitare la conversione dell'intera città, non in pubblico ma nella tetraggine della prigione.

Era il 9 luglio del 252 e il crudele carnefice entrò nel carcere e trovò Anatolia dritta in piedi a braccia aperte, assorta in orazione. Il boia, tratta la spada dal fodero, gliela piantò nel fianco destro con tanta veemenza che la punta dell'arma passando il corpo da parte a parte, spuntò nel fianco sinistro. E così Anatolia, vergine e martire di Cristo, superate le sventure di questo mondo infelice, giunse in compagnia delle schiere dei martiri e delle vergini alla sempiterna allegrezza e si riunì eternamente nel cielo con quel suo caro sposo, Gesù, insistentemente cercato e calorosamente amato giorno e notte su questa terra.

Nel mattino seguente, ciè il 10 luglio, alcuni cristiani di Tora, i quali avevano creduto a Cristo per mezzo della martire, entrati nella prigione, rapirono il suo corpo, forse custodito da soldati, per rendergli l'onore del sepolcro che, come si legge, veniva dato ad altri santi martirizzati. Dio stesso, assicura l'antico scrittore, aveva indicato il luogo dove essi spargendo amarissime lagrime lo seppellirono. L'indicato luogo si trovava nella vale Torana ed era il medesimo nel quale la moglie ed i figli di Audace avevano deposto le spoglie del loro caro, secondo i risultati del ritrovamento effettuato sette secoli dopo. I due atleti, uniti nel carcere e nel martirio, si ritrovarono uniti anche nella tomba. Può supporsi che il sepolcro di Anatolia, sebbene fosse una fonte perenne di grazie per quei fedeli, almeno durante le crudelissime persecuzioni seguite a quella di Decio, rimanesse incerto e sconosciuto.

Non appena fu data la pace alla chiesa, nella valle Torana si costruì una chiesa in onore a Sant'Anatolia e il 9 luglio di ogni anno in folla vi accorrevano i popoli vicini a venerare la Taumaturga e a conseguire insigni prodigi per gli infermi che vi conducevano.

7. V - IL RITROVAMENTO DELLE RELIQUIE

Leone il 'gagliardo' abate di Subiaco

Sulla città di Tora, come su altri luoghi popolati della valle del Salto, che costituiscono il paese del Cicolano, si abbattè la furia delle invasioni dei barbari con la triste catena di stragi, d'incendi e di devastazioni. Con il tempo costoro si assuefecero agli sventurati italiani e sistemarono a modo loro il territorio.

I Longobardi, una delle popolazioni straniere più fiere, compresero Tora nella circoscrizione amministrativa del Ducato di Spoleto e da allora Tora iniziò le relazioni con l'imperiale abbazia di Farfa ma sempre dipendente dal punto di vista religioso dal Vescovo di Rieti.

Ceneri di S. Anatolia - Monastero del S. Speco

Le condizioni del Cicolano divennero, come del resto in tutta l'Italia, piuttosto oscure e non vale la pena di affrontare la fatica d'inoltrarsi in un terreno così poco solido e incerto.

Basterà accennare che tra gli anni 875 e il 926 non meno di undici re, di volta in volta italiani, francesi e tedeschi, cinsero la Corona d'Italia e da questa inettitudine a governare, si scivolò in una pericolosa anarchia resa più grave dall'imperversare dei pagani.

Ungari da settentrione e Saraceni dalla parte opposta, avevano reso tristissime le condizioni di tuti i cristiani e quelle particolari della Diocesi di Rieti calpestata dai maomettani.

Con vibranti lettere all'imperatore, il papa Giovani VIII e un altro papa, Stefano VI, ancor più pressamente lo invitarono a scendere in Italia per purgarla dalla faziosità dei cattivi cristiani e dalla molesta presenza dei pagani.

In quell'atmosfera rovente, i monaci di Farfa furono costretti ad abandonare le fumanti rovine della loro badia ed a rifugiarsi nel Camerinense, sul monte Matenano ivi portando le reliquie di S.Vittoria. I Saraceni, istallati e fortificati alla foce del Garigliano, partivano per molestare il ducato di Spoleto e il patrimonio della Chiesa. Conquistarono Rieti e Antodoco e, come al solito, uccisero, incendiarono e devastarono e si fortificarono a Trebula Mutuesca, la città dove, come si ricorderà, S.Vittoria fu uccisa.

Cranio di S. Anatolia - Monastero del S. Speco

La memoria del loro passaggio rimane affidata al nome delle contrade, quali Muro Saraceno in Framignano, Aia Saracena in Alzano e in Castelmenardo, i quali nomi alimentano le nostre fantasie nella ricostruzione di episodi ignorati dalle cronache.

Papa Giovanni X bandì contro gli infedeli una specie di crociata alla quale partecipò, insieme con altri, lo stesso duca di Spoleto e Camerino di nome Alberico I. Le forze coalizzate dei cristiani snidiarono i Saraceni da Trebula costringendoli alla fuga verso le loro basi e lungo il percorso li sconfissero in vicinanza di Tivoli e a Vicovaro, dove essi peraltro lasciarono delle pattuglie che nella valle dell'Aniene formarono Saracinesco Vecchio e Saracinesco nuovo.

Con a capo lo stesso Pontefice, l'esercito cristiano si mosse ad attaccarli nei munitissimi fortilizi delle loro basi e, in una memorabile battaglia campale, nel 926 sgominò i Saraceni sulle rive del Garigliano. In questa atmosfera di alleanze e mutue assistenze, Alberico duca di Spoleto fece inviare a Subiaco l'abate Leone per ripristinarvi la Comunità benedettina.

Un vescovo di Rieti, mosso da una speciale devozione verso S. Benedetto, si indusse ad accrescere il patrimonio della ricostruita Badia col donarle la chiesa di S. Anatolia e la Valle Torana.

Lo scritto che quel donativo accompagnava e perfezionava è andato smarrito ma esistono, come si vedrà, prove indirette della sua compilazione. L'abate Leone volle prendere possesso del graditissimo dono e con una grande comitiva di nobili, signori e famigliari, nell'anno 932 partì da Subiaco alla volta di Tora. Qui giunto volle realizzare ciò che in mente aveva lungamente concepito e cioè l'investigazione delle reliquie dei santi Anatolia e Audace che egli poco prima aveva saputo fossero nascoste nella Vallata.

Il pio abate ordinò per svago una caccia durante la quale accadde un fatto miracoloso. All'avvicinarsi al luogo dove stavano nascosti i corpi dei santi, i cani non potevano penetrarvi e se ne sentivano respinti da forza arcana. Presi da folle spavento ritornarono indietro verso i cacciatori fieramente uggiolando e abbaiando come colpiti da rabbia. Tutti se ne meravigliavano fuorché Leone il quale solamente sapeva nascoste nella Valle di Tora le sante reliquie dei martiri e ripeteva: «Non senza mistero accade tuyto ciò !».

S'investigò con ogni diligenza dappertutto ma non si trovarono tracce dei corpi ricercati e la partita di caccia terminò. Ciascuno si alontanò da quei luoghi insieme con il pio abate che si era messo di nuovo a cavallo dirigendosi alla volta di Subiaco. E qui rifulsero i disegni del Signore che volle manifestata al mondo la gloria dei suoi santi.

Leone fu preso da grave sonno e, caduto quasi di sella, sentì il bisogno di dormire giacendo sul nudo terreno. Destatosi dopo poco cominciò a dire: «Sono stato ristorato da un sonno salubre». E, a quanti gli erano corsi a fianco, narrò per ordine e indicò il luogo, da Dio stesso mostratogli, nel quale da molti secoli era racchiuso il tesoro dei santi corpi. Tutti si volsero verso la parte alla quale l'abate alludeva e tra esclamazioni e grida di giubilo si svolse una gara operosa che sassi e terra smuoveva.

Furono scoperte due urne da cui usciva un soavissimo profumo e, scoperchiatele, in una trovarono il corpo di Sant'Anatolia e nell'altra quello di Sant'Audace. Ci fu grande giubilo e dolci lagrime tra i presenti per l'inaspettato e caro ritrovamento e fu felicissimo, oltre ogni dire, l'abate Leone. Questi stabilì, per conservare in un luogo più decente quelle sacre spoglie, di farle trasportare a Subiaco e, rivestitele pomposamente di nobili e preziosi panni, vennero caricate su un cavalo indomito che, al solo tocco delle urne, diventò mansueto e placidissimo.

Giunte le spoglie a Subiaco, la cittadinanza accorse a riceverle alle porte e, tra lagrime di tenerezza e giubilo, trionfalmente le accompagnarono al monastero di Santa Scolastica dove furono esposte alla pubblica venerazione.

Il cavallo indomito, appena scaricata la preziosa soma alla porta della chiesa, stramazzò morto in terra, per divina disposizione che impediva a ciò che era stato santificato dal contatto delle sacre reliquie di venir destinato ad usi profani.

 

 

Tomba di Anatolia e Audace - Monastero di S. Scolastica

E i Torensi come accettarono il gesto di Leone ? Pare di leggere che essi a quello che a loro sembrava un rapimento ed un sorpruso reagirono e corsero per le vie di Rieti e per quelle di Subiaco esternando proteste e cerimonie. Il loro vescovo Anastasio (948-969) si fece eccellente mediatore con l'ardito, animosus, abate Leone. Questi sentiva di dover andare incontro alla popolazione menomata dalla sottrazione dei corpi dei Santi e fu raggiunto un accomodamento. L'abate avrebbe ceduto una spatola di Sant'Anatolia in cambio di qualche diritto, aliquantulum juris, che riceveva probabilmente dallo stesso vescovo Anastasio. Nell'anno 981 poi, allorchè il sommo pontefice Benedetto VII di propria mano consacrò la chiesa di Santa Scolastica fu deposto il corpo di S. Audace sotto l'altare maggiore.

Nell'anno 1095 infine, Adamo, vescovo di Alatri, invitato dall'abate Giovanni, riverentemente pose le reliquie di S. Anatolia sotto l'altare maggiore del sacro Speco di San Benedetto in Subiaco. In questa circostanza l'abate spedì alcune reliquie di Sant'Anatolia a quella cospicua terra della Marca di Ancona, detta Esanatoglia e da allora è invalso l'uso di far invocare a testimonio, dai monaci del sacro Speco, nel fare la professione monastica, anche il nome di S.Anatolia «il cui corpo riposa in questa chiesa». Non solo nel giorno della sua festa che cade però il 10 (e non il 9) di luglio in quel luogo sacro venerano la Taumaturga i popoli vicini, ma in ciascun giorno si recano allo Speco del santo patriarca Benedetto pellegrini e visitatori di ogni lingua e nazione.

S.Anatolia in Colonia Jubenzana

Nella stessa abazia di Subiaco, in Gerano, S.Anatolia si venera come protettrice e se ne riguarda solennemente la festa, celebrata in una chiesa a lei dedicata, discosta circa un miglio dall'abitato del paese e contornata da un prato vasto e ameno.

In questa chiesa rurale scaturiva una vera sorgente di grazie per zoppi, rattrappiti, indogliati e per sofferenti di altra infermità o imperfezione ribelle ad ogni rimedio dell'arte medica che vi si portavano in venerazione. Appena prostrati innanzi all'altare dov'ergesi la sua statua e supplici invocavano la martire cicolana, per lo più si vedevano liberati da ogni male con meraviglia e commozione insieme.

Si vedevano poi allontanare con le proprie gambe dalla chiesa di S. Anatolia festosi e giulivi quelli che da altri sostenuti o portati a braccia o sorretti da grucce vi erano stati portati, dopo aver depositato i vani sostegni della guarità infermità.

Ancora quella chiesa di Gerano il 10 luglio di ogni anno viene frequentata da una folla di remota provenienza e di numero difficilmente calcolabile in continuazione di quei pellegrinaggi, iniziati già dal X secolo se non prima. Difficilmente i pellegrini rimarranno commossi al compimento di una grazia taumaturgica e allo spettacolo che ne segue perchè alla intercessione riparatrice di Sant'Anatolia è stata sostituita la fede nei poteri di una magia più o meno nera ma sempre ipotetica. Il governatore Festiano invasato dall'idolatria e grato a modo suo a Sant'Anatolia, ha fatto scuola e proseliti numerosi.

All'origine di questa devozione, a parere di chi scrive, sta la remota venerazione dei Benedettini per le sue martiri Vittoria e Anatolia. Ancora oggi sul timpano dell'altare maggiore di quella chiesa può leggersi in lettere greche il sublime titolo di madre di Dio. Theotokos e la città rivendica non ben precisate origini delle due martiri.

Nella Valle Giovenzana, dove le proprietà della Chiesa si confondevano con quelle del vescovo di Tivoli dal quale allora essa dipendeva, esisteva la chiesa di Sant'Anatolia già nell'anno 936 come si rileva dal privilegio pontificio: 'praedicta colonia quae appellatur Iubenzana qui et Trellano (Gerano) vocatur, in ea antea fuit curte domnica et ecclesia sancte Anatoliae.

Nel centro agricolo, curtis, impiantato lungo l'arcaica via di collegamento tra Roma e il paese degli Ernici, attraverso la città di Empoli e di Sassola e gli Altipiani di Arcinazzo, e costituito da negozi, magazzini, ospizi e chiese, tra queste si noverava già la chiesa dedicata a Sant'Anatolia. La curtis domnica era stata distrutta in antea dai Saraceni annidiati nella valle dell'Aniene e battuti, come si è detto, a Vicovaro (poco lontano dalla colonia Giovenzano) ma non completamente snidiati se le loro pattuglie poterono fondarvi Saracinesco Vecchio e Nuovo.

Lo stesso centro, ridotto a colonia, passò nelle mani dei Benedettini di Subiaco poco prima dell'anno 936 e la natura dell'origine della venerazione di S.Anatolia in Gerano finora un po' nebulosa meriterebbe di essere corretta. Si era pensato che l'abate Leone, di ritorno dalla val di Tora, per raggiungere Subiaco, anzichè attraversare da Arsoli la val d'Aniene, da Vicovaro si sarebbe portato in Gerano e dall'affluenza di popolo mosso ad incontrare le reliquie, vi avrebbe decisa una sosta in un padiglione provvisorio.

La gente avrebbe continuato ad accorrere in quel posto per venerarvi la Tammaturga cicolana trasformandolo in una chiesa. Quella sosta, che allungava notevolmente l'itinerario del viaggio, sembra capricciosa e pone una logica domanda: perchè il pio abate scelse proprio Trellano-Gerano e non per esempio Arsoli e Vicovaro che incontrava lungo il cammino diretto e più breve ?

La risposta più spontanea e logica è appunto che doveva uno speciale riguardo a Trellano-Gerano a causa della chiesa di S.Anatolia, da cui forse era stato ispirato a compiere il viaggio.

8. VI - LA CITTA' DI TORA

La Citta' di Tora

«Passa est autem sancta sacratissima virgo Anatholia in loco ubi exuberant virtutes d. N.J.C. per oratione ejus usque in presentem diem...» (da una ms. dell'VIII secolo - già nella Badia di Farfa, oggi nella Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma)

Protagonisti e coristi in questa narrazione hanno formato un groviglio non interamente districato. E' probabile che gli sposi nuncupativi si siano sistemati con altre due pulzelle, altrettanto giovani e belle di Anatolia e Vittoria e presto, senza rimpianti per i loro tesori, sarà loro passato di mente il sangue innocente fatto spargere sotto l'obrobriosa veste di spie.

L'impagabile Festiano (che in qualche punto era chiamato Teodoro, dono di Dio), al termine dell'incarico svolto nel Piceno, sarà tornato in patria e, come era costume presso i romani, si sarà dedicato alla vita dei campi e al patronato dei rustici che contornavano la sua villa.

Suo figlio Aniano somiglia troppo ai nove lebbrosi guariti da Gesù che si ritirarono senza un ringraziamento e la storia lo fa rientrare scialbamente nei ranghi idolatrici. Folgorato per intercessione di Anatolia, folgorato dalla Grazia, non tradisce come il decimo lebbroso, riconoscenza per la sua benefattrice e senza spingerla come fece il mago Audace, fino al martirio, neppure che si sappia, con l'adesione al cristianesimo.

Subiaco, il Sacro Speco e i Benedettini e Gerano perdurano nel solco tracciato dalla vergine cicolana ancora sotto i nostri occhi e nello sfondo di tutti gli avvenimenti, la Chiesa Cattolica, Sposa del Sangue o Chiesa del Silenzio, ha ripetuto nei XVII secoli trascorsi da allora, uguale a se stessa, la vocazione a mantenere il Regno di Dio su questa tera sempre sofferendo, combattendo e sperando.

I principi professati nel III secolo e affermati da S.Anatolia, con S. Vittoria e con S. Audace, non differiscono da quelli espressi da Pio XII agli uomini di Azione Cattolica e ai giovani, riferiti in principio. Dopo la lunga vacanza, causata dall'uccisione di San Fabiano, la chiesa riebbe il suo pastore in Cornelio (martirizzato il 14 settembre 255) e la serie dei pastori della chiesa, attraverso vicissitudini, eresie, scismi, errori, continua fino al pontefice gloriosamente regnante.

Defezioni, tradimenti e persecuzioni (grazie a Dio) non sono mancate e non mancano. Ma neppure martiri, confessori, santi e buoni cristiani, come le stesse parole del santo Padre hanno indicato, più per esempio che non per rigore di numero, in Maria Goretti e Contardo Ferrini.

E Tora e i Toresi ? Colpiti da immeritata sorte sono spariti, essi, che pur erano stati così pietosi verso la martire prigioniera e anzi, neppure si conosce dove la città si trovasse. Rimane aperta la contesa tra Castelvecchio (oggi Castel di Tora) e Sant'Anatolia in teritorio di Borgocollefegato, trascurando Esanatoglia, arcidiocesi di Camerino, che per Jacobilli volentieri contenderebbe gli onori agli altri due paesi. La maggioranza dei fautori (tutti autorevoli) della prima ipotesi ragionano presso a poco così: Tora va identificata con Castelvecchio, oggi Castel di Tora, perchè il fiume Turano lambisce i piedi della sua collina e ha dato il nome al paese. Ha una chiesa dedicata a S.Anatolia annessa oggi al Pontificio Collegio Romano. In Collepiccolo dirimpetto ad Antuni e sovrastante ad una piana assommano avanzi di antiche costruzioni che sono i resti dell'antica Città di Tora.

I partigiani dell'altra ipotesi sono, a quanto risulta, uno, Monsignor Marini, vescovo di Rieti nella seconda metà del XVIII secolo, e controbattono: Il Marini, è partito dalla ripetuta segnalazione del calendario popolare che sotto la data del 9 luglio, annota: «nella città di Tjrio, presso il lago Velino, il martirio dei santi Anatolia e Audace, sotto Decio imperatore...» e ha costruito il suo ragionamento così: «nè l'antica Tora prese il nome dal Turano nè la città esisteva presso detto fiume, ma ben lungi da esso si trovava e ben lontano dal Turano. Non in Sabina, ma nelle parti di Regno (delle Due Sicilie), nella Regione a confine con Equicoli e Marsi. Non in Castelvecchio, ma presso la terra di Torano e la poco distante Sant'Anatolia dei Marsi. A questo punto affacciava un argomento, se non decisivo, nemmeno trascurabile, vale a dire la distanza da Rieti. Secondo gli antichi geografi, questa città distava da Tora XL miglia - tradotta in misura moderna circa Km. 60 - Orbene essa si attaglia approssimativamente a quella che intercorre da Sant'Anatolia a Rieti, mentre Castelvecchio ne dista Km. 28.500». E incalzava: «il Velino o è il fiume, che con il nome di Piediluco scorre in mezzo a Rieti (mentre il Turano vien detto dalle antiche fonti Imele o Telonio), o è un monte ed è chiamato (a quei tempi) Montagna Velina, ovvero è un lago e in questo caso, notava, nel declivio della Montagna Velina si è formato un minuscolo bacino idrico che gli antichi chiamavano lacus».

Ad avvalorare questo convincimento sarà opportuno ricordare che lo stesso termine venne usato in Subiaco, così strettamente legato alla storia di S.Anatolia per i tre laghi formati dalla raccolta di acqua dell'Anio Novus, sui quali si specchiava la opulenta Villa di Nerone detta appunto il Sublaqueo. La loro esiguità era manifesta ed altri, non meno autorevoli scrittori, i laghi stessi chiamarono stagni Simbruini, Simbruina Stagna. «Univoca e fitta è infine la toponomastica - concludeva Monsignor Marini - in questi posti con S. Anatolia in Tora, S. Lorenzo in Tora, S. Costanzo in Cartora e Torano».

Anatolia - Chiesa di S. Anatolia

Altrove, il predetto vescovo, lasciò, in occasione di Visita Pastorale, in data 26 agosto 1797, verbalizzato che la chiesa principale di Sant'Anatolia dei Marsi trovavasi fuori del paese nel luogo dove «per più secoli si venerava il corpo della santa e dove fu coronata dal martirio». Doveva averla trovata in condizioni soddisfacienti e ben diverse da quelle in cui la vide il card. Amulio quando esperì, per la prima volta, la visita pastorale in aplicazione dei decreti del concilio di Trento e che scrisse: «si teme che si rovinino i sacri arredi e i paramenti e, pur fatiscente, nella chiesa talvolta si celebra la messa per divozione di qualche fedele».

Il ragionamento di monsignor Marini è logico e concludente eppure, a giudizio di chi scrive, non è completo trascurando altri due elementi essenziali per l'orditura della leggenda di S.Anatolia e trascurando gli echi sublacensi promananti dalla Taumaturga. A entrambi si dedica questo breve discorso: nella città di Tora esisteva un oracolo sotto la protezione di Mercurio.

L'epigrafia ha potuto scoprirvi i concorrenti culti per Giove e, trattandosi di luoghi boschivi, per Diana memorense e Silvano. Faceva parte del Municipio Equicolano e il suo nome derivava, come si è visto, da Marte (Thyrios Arìs) che conservò per tutto il medioevo con variante in Tiora e aveva un soprannome, Matiene.

Inequivocabilmente l'avevano vista il Marini, Bunsen, Martelli, Colucci e il Michaeli nella regione Equicola e non in Sabina e la identificò nel secolo scorso Gioberti scrivendo: «Uno dei più antichi oracoli pelasgici è quello di Tiora, oggi Torano, nel territorio di Rieti, presso il villaggio di S.Anatolia, ai piè del monte Velino dove il Pico, uccello divino degli Aborigeni profetava».

E' stata ricordata, trattando il rinvenimento delle spoglie di S.Anatolia, l'epoca in cui presumibilmente un vescovo di Rieti per devozione a San Benedetto, donò all'abate di Subiaco dei beni nella valle di Tora. L'originario atto è andato smarrito. Il prenominato mons. Marini ne tramanda l'eco, raccolta 'da un registro del sec. XIV che conservasi nel mio archivio' da chi scrive ricercato invano.

Sancta Anatolia - Monastero di S. Scolastica

Erano beni per il cui trasferimento occorreva la ratifica dell'Imperatore e del Papa: la prima fu data da Ugo e Lotario re d'Italia nel 941 e molto più esplicitamente dall'imperatore Ottone I nell'anno 967, in questi termini: (all'abate Giorgio) «... confermiamo ... anche tutto ciò che gli spetta in territorio di Rieti, cioè, nella valle chiamata Tora, la chiesa di S. Anatolia che ha ricevuto per concessione scritta del vescovo di Rieti...».

Da parte sua il Papa Leone IX, nel 1051, confermò al monastero di Subiaco, quanto aveva acquistato nel territorio reatino e cioè «... in valle Torense anche la chiesa di S. Anatolia che possiede per scrittura del vescovo della Santa chiesa di Rieti...».

E' superfluo aggiungere nella Marsica e non nella Sabina. La stessa nazione di Audace, Marsus, cioè appartenente alla Marsica, vicina a Tora, dove arrivava il confine territoriale di Albe e famosa per incantesimi e per magie, n'è una ulteriore e piena conferma.

Del resto, su quel che è stato detto, il lettore può pronunciare un sereno giudizio estraneo a tenerezze di campanile, di scuola o di congrega.

Deo Gratias !

Note

  1. Da una ricerca sommaria ho tratto questi titoli di libri o articoli pubblicati da Domenico Federici: Il comune: saggi e studi, Subiaco 1932 - Le origini comunali in Subiaco e il monachismo, in Atti e memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte, 1937 - Carteggio Cappellari (Gregorio XVI) - Mandelli, in Archivio Storico di Belluno, Feltre in Cadore 1937 - Primordii benedettini e origini comunali in Subiaco, Subiaco 1938 - Echi di giansenismo in Lombardia e l'epistolario Pujati-Guadagnini, in Archivio Storico Lombardo 1940 - Gli inizi della potenza del Sublacense. L'abate Leone il Gagliardo, in Atti e memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte 1940 - Ente provinciale per il turismo, Vie e mete del turismo in Roma e provincia, Roma 1947 - Gregorio XVI. tra favola e realtà, Rovigo 1948 - Campania Minima. Abati, Conti e Comuni in territorio tiburtino, in Atti e memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte (I) 1952 - Campania Minima. Abati, Conti e Comuni in territorio tiburtino, in Atti e memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte (II) 1953 - S. Francesco si preparò alle stigmate nel Sacro Speco, in Atti e memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte 1953 - Abati, Conti e Comuni in territorio tiburtino, in Atti e memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte 1953 - Trivana-Cave possesso del sublacense. "Missa in dedicatione" del Sacramentario Leoniano e un passo del "Liber Pontificalis", in Atti e memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte 1954 - Alcuni aspetti della proprieta fondiaria del Lazio, Roma 1957 - Abbrivi benedettini in Val d'Aniene, Frascati 1958 - La città di "Ferentinello minor" in Campania, Roma 1958 - Sguardo panoramico sul doc. II del Regesto della chiesa di Tivoli, in Atti e memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte 1959 - La unità del bacino dell'Aniene, 1960 - I monasteri di Subiaco in alcuni recenti scritti, in Atti e memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte 1961 - I Longobardi alle porte del Ducato di Roma (Sec. VI-XII), in Atti e memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte 1962 - I Francescani visti in Anagni in una donazione del 1219, Roma 1966
  2. Don Pietro Caponi, Notizie storiche di S. Anatolia Vergine e Martire e di S. Audace martire, Roma 1852 - Link interno - Google Libri