1809: Giuseppe Simelli

"Il Cicoli, Regione degli antichi Equicoli. Estratto dal manoscritto del 1810 nella trascrizione di Giorgio Filippi"

L'architetto Giuseppe Simelli, nato a Stroncone (TR) il 6 agosto 1777, nel 1809 si recò nel Cicolano su incarico dell'Institute de France di Roma, per ricercare le rovine pelasgiche del territorio della Sabina, secondo quanto tramandato da Dionisio D'Alicarnasso. Il Simelli passò anche per Sant'Anatolia dove disegnò il muro poligonale dell'Ara della Turchetta e rendicontò per iscritto le proprie impressioni:

S. Anatolia antica Tora

Partendo da Nece dopo aver fatto circa un miglio di strada si discende nella gran valle sopra descritta, che abbiamo detto terminare col Lago di Fucino, e che prende la sua direzione principalmente verso il Sud-Est. Dopo una strada di circa undici miglia s’incontra Torano. Questo luogo ex-feudo della famiglia Antonini niente contiene di antico per quanto io potessi rilevare, e vi osservai solo alcuni avanzi di cose gotiche, specialmente nel palazzo del barone. Dopo un altro miglio circa di strada si giunge al villaggio di S. Anatolia. Precisamente in questa campagna era l’antica Tiora. Ciò non ammette alcun dubbio. La tradizione si è costante, e niuno anche de’ più sofistici antiquari lo nega. Vi sono ancora le rovine di una città detta comunemente le rovine di Tora. Queste sono circa due miglia distanti dal villaggio: ora non vi è di abitato che qualche tugurio pastorale, e vi è una chiesa ove una volta l’anno nella bella stagione gli abitanti di S. Anatolia si portano processionalmente. Ciò però che prova maggiormente che qui o nel raggio di qualche miglio esistesse Tiora è il martirio di S. Anatolia, che secondo gli antichi scrittori successe nella città di Tiora presso il monte Velino. Questo luogo infatti che è alle radici del Monte Velino (detto ora corrottamente Avellino) fu il luogo del martirio di S. Anatolia, ivi è stato lungamente venerato il corpo di questa santa che poi dai monaci Benedettini fu trasportato in Subiaco quando essi abbandonarono quella loro Abazia, e compresero, giacché niuno gli ostò, anche questa reliquia di pubblico diritto di quella popolazione fra le proprietà particolari del monastero, che si portarono con loro. Si mostra però ancora la cappella ove questo corpo santo era depositato, ed è in gran venerazione presso tutte le popolazioni circonvicine. Quanto io riferisco mi fu asserito particolarmente dal rettore della chiesa e parroco della popolazione, che ha ancora il titolo di abate.

Con quanti altri ne ho parlato tutti mi hanno detto lo stesso, specialmente Mons. Rossi Vescovo de’ Marsi, ed il Sig. Martelli Felice uomini dottissimi e valenti antiquari, e verisimilmente si troverebbero queste memorie registrate negli archivi, e si potrebbero documentare con iscrizioni lapidarie, e ne parlerà forse anche la cronaca farfense. Io non le ricercai più che tanto perché non pensavo allora di dovere entrare in dettagli comprovanti la situazione topografica de’ luoghi, credendo che la mia commissione si ristringesse solo a trovar muri ciclopei, ed indicare questi nella carta geografica, e nulla più. Tutto il resto lo ricercavo per mia curiosità, per avere di che trattenermi a discorrere la sera, e dopo il pranzo.

E allorché per dimostrare il mio impegno al valente soggetto che mi aveva onorato della commissione di rintracciare questi monumenti, cominciai ad inserire nella mia relazione quelle cognizioni istoriche che avevo raccolte, non solo non credevo che venissero ricevute con tanta bontà, ma mi aspettavo in risposta, che in seconda parte mi tenessi più compendioso, per risparmio di posta, e ciò per usarmi la convenienza di non dirmi a brutto grugno che avevo inviato una ciarlatanata. Ciò me lo aspettavo assolutamente, poiché scrivo per la prima volta di cose delle quali appena ho qualche idea per la familiarità che ho procurato sempre di avere con persone erudite, ma che del resto non hanno mai formato l’oggetto de’ miei studi.

La chiesa antica Abazia de’ Benedettini ove era prima il corpo di S. Anatolia, è fuori del villaggio circa un mezzo miglio verso il Nord-Est, benché sia la chiesa principale, e parrocchia, e solo da poco tempo è stata eretta una altra chiesa dentro il paese per comodo della popolazione, e governata dallo stesso rettore e parroco. Sotto alla predetta antica chiesa, vi è il monumento ciclopeo segnato n. XXIV, e forma quasi una sostruzione al terreno che regge la chiesa stessa. Sono denominati muri antichi. Le persone colte del paese li chiamano muri del tempio di Marte e tali li crede ancora il Sig. Martelli, io però non ho potuto avere una prova certa che questi muri realmente appartenessero al Tempio di Marte.

Sono in un luogo profondamente avvallato, e pare in verità che questo luogo potesse essere adattato ad un oracolo quale si suppone che fosse il Tempio di Marte, tanto più se fosse stato circondato da un bosco forse ora tolto per ridurre il terreno a coltura.

Ho detto di sopra, che due miglia circa distanti sono alcune rovine dette di Tora. Se presso queste rovine era l’antica Tiora questo oracolo ne rimaneva due miglia distante, e ciò era anche più conveniente, mentre a questi luoghi, dove il mistero ed un sacro orrore doveano aver la loro sede, era più adatta una situazione lontana dall’abitato. Anche ai nostri tempi è inspirata a sentimenti più patetici un convento di Cappuccini posto in campagna circondato da un bosco, ed ove regnava un profondo silenzio, che il convento de’ Cappuccini medesimi posto nell’abitato di Roma. Infine se presso queste ruine ciclopee i Monaci Benedettini fondarono un monastero, non è cosa improbabile che vi fosse un tempio, ove si rendesse il culto alli Dei della Gentilità, poiché come altrove è stato osservato si sceglievano con piacere que’ luoghi ove erano stati tempi Gentili per erigervi delle chiese cristiane, e ciò specialamente fu fatto de’ Monaci Benedettini in queste regioni. È questo quanto posso dire per appoggiare l’opinione di quelli che dicono che qui fosse il Tempio di Marte, che riferisce la storia esser stato in Tiora. È questo il più bel muro ciclopeo che abbia trovato, le pietre sono lavorate con gran finitezza, e fra l’una e l’altra difficilmente si potrebbe introdurre una lama di spada. Anche questa particolarità di un lavoro così diligente ed esatto può coadiuvare l’opinione di quelli che dicono che questo fosse il tempio di Marte, essendo questo tempio il principale di Tiora. Se poi il culto di Marte sia stato tanto antico da potersi riferire ai tempi ciclopei, lo sanno gli eruditi, a me pare però d’aver letto, che la madre di Romolo e Remo dicesse d’esser rimasta pregna di questa divinità, onde il culto di essa dovette essere bene antico in Italia. I colore rosso lett. A indica un muro di calce ora mezzo rovinato, che è stato fatto da qualche centinaio d’anni a questa parte, per quanto si può rilevare dalla sua maniera perpendicolarmente a ridosso del muro ciclopeo, forse per la divisione di qualche orto, o per addossarvi qualche capanna, giacché nel muro ciclopeo non vi sono segni di travi conficcati, o tetto appoggiato. Le pietre sono di natura calcarea.

Simelli - Ara della Turchetta

La linea punteggiata BB ha avuto origine da un graziosissimo aneddoto al quale diede motivo il mio viaggio. Allorché disegnai questo muro esso si mostrava precisamente fino alla linea punteggiata. In questo villaggio però più che altrove io fui giudicato per un negromante cava tesori. Mentre io stavo disegnando in una mattina di festa, una gran quantità di popolo mi stava osservando da lontano sulle alture del colle vicino ove è fabbricato il villaggio. Che belli discorsi accademici avrà tenuti quest’adunanza! Il padrone del fondo, come mi fu poi riferito, proruppe allora in una delle più compassionevoli lamentazioni, né si potea consolare, perché dovesse venire una persona sconosciuta a portar via i quadrini che erano nell’orto suo. Il libro dei disegni era il libro del comando, il tripode, ossia sedia portatile de’ pittori ad essi affatto ignota, avea del misterioso, e non poteva essere che una cosa magica, in una parola mentre io disegnavo, secondo essi facevo lo scongiuro. È cosa troppo naturale che io ero sempre attento colla coda dell’occhio a tutto ciò che succedeva, siccome non mi accorsi di altro, che oltrepassava i limiti di una grande ammirazione, così continuai il fatto mio, poi andiedi a pranzo, e partii in seguito per esser la sera ad Avezzano. La mia partenza però non tranquillizzò punto il padrone del fondo.

Dubitando egli che io sarei tornato di notte per rubargli il tesoro, prudentemente risolse di non farsi prevenire, ed adunati vari amici quella notte stessa cominciò uno scavo. I primi tasti furono fatti nei luoghi ove io ero stato a sedere, e non avendovi trovato ciò che cercava proseguì a scavare per la lunghezza, e profondità del disegno indicato sopra una larghezza di circa due metri. Oltre la notte fu continuato il lavoro per tutto il giorno seguente. Per diriger lo scavo fu giudicato necessario uno che sapesse di lettere e fu perciò chiamato il medico di un vicino villaggio. Vi accorse egli senza farselo dire due volte, e la sua grande occupazione fu quella di gridare quasi continuamente Merolo (cioè Merlo) Con questa parola merlo e per un vezzo disgraziato merolo voleva egli indicare il diavolo, giacché dicesi che anche questo signore si diletti vestire di nero, mandava ad esso che andasse fuori di quel luogo per lasciare libero il tesoro a chi lo cercava. Tutto ciò mi fu raccontato nel ripassare che feci da S. Anatolia quando me ne tornai a casa; vidi io stesso lo scavo, e dopo aver disegnato il muro che avean disotterrato, commisi ad un eremita della chiesa di fare i miei ringraziamenti a quella persona che aveva voluto usarmi quell’attenzione.

Dat Galenus operas, dat Justinianus honores. dire che a quel povero medico sia stato sempre nemico Galeno, se avendogli negate le sue ricchezze, lo ha costretto a ricavarle da Plutone. Se esso ragiona sempre così felicemente, Dio guardi dalle sue mani mediche ogni buon galantuomo. Meno di un mezzo miglio distante da questo luogo verso l’Est-Nord Est trovasi il monumento ciclopeo segnato n. XXV. Consiste questo monumento in una area incavata nella roccia, e sostenuta nel davanti da un muro ciclopeo. Sopra quest’area se ne inalza un’altra più piccola tutta incavata nella roccia, e sopra questa seconda sembra che dovessero essere i sacerdoti sacrificanti in vista del popolo che dovea assistere radunato nella prima.

Questo fano è simile all’altro da me riportato ai n. XIII e XIV lett. A. Il muro ciclopeo ha quasi tutte le pietre, che lo trapassano da parte a parte, ed è grosso circa un metro. Questo è il muro più grezzo che abbia veduto, e difficilmente se ne potrà trovare un altro più rozzamente lavorato. Sembra che le pietre siano state collocate tal quali sono venute dalla cava, coll’avergli tolte soltanto le prominenze più ruvide della faccia davanti. Così presso S. Anatolia, ed in vicinanza di meno di mezzo miglio l’uno dall’altro, so trovano due monumenti, che danno i due estremi della lavorazione ciclopea, vale a dire il genere il più rustico si trova nel monumento ora descritto, mentre l’altro precedente n. XXIV presenta il genere il più polito. Fra Torano e S. Anatolia, a mano manca a chi dal primo si conduce a questo secondo villaggio, a piè di una collina si vedono i vestigi di altro monumento ciclopeo. Io li vidi allorché ritornavo dopo aver disegnato i monumenti di Alba Fucense, che or’ora esporrò, confesso però la verità, che essendo l’ora tarda, ed essendo io superbo di tanti rimarchevoli monumenti ciclopei, che in Alba aveo ritrovato, non mi degnai fermarmi a questo, che pochi palmi s’inalzava da terra. Ora mi dispiace assai d’averlo trascurato, ma non posso rimediare lo male fatto. È purtroppo vero che l’abbondanza delle cose rende l’uomo disprezzatore, o almeno non curante: se nei primi quindici giorni del mio viaggio avessi trovato un monumento consimile, avrei creduto toccare il cielo col dito, ma allora che venivo dall’avere trovato il circuito di una città intera, mi parve questo troppo piccolo oggetto perché meritasse la mia attenzione. S. Anatolia non è compresa nello spazio di paese, che oggi si chiama Cicoli, ciò non ostante pretendono gli eruditi, e principalmente il Sig. Martelli, che l’antica Tiora fosse città degli Equicoli. Io non saprei addurne le ragioni, quello solo che posso dire si è che il paese degli Equicoli prima compreso nella Diocesi di Amiternum passò poi sotto quella di Rieti e che S. Anatolia anche fino al giorno di oggi si appartiene a questa Diocesi. Un miglio e mezzo o due più in là entra subito la Diocesi de’ Marsi.

Prima di abbandonare il paese degli Equi, mi resta solo a dire, che in una lunghissima lettera da me scritta al On. Sig. Petit-Radel responsiva ad altra sua, ho esposte diffusamente le ragioni, per le quali credo che alle rovine presso Nece da me riportate n.XIII e seguenti si debbano applicare i versi di Virgilio et te montosae misere in proelia Nersae, come anche addussi le ragioni, per le quali non potrei mai indurmi a credere che il monumento presso Civitella da me riferito ai nn. XVIII e seguenti fosse un luogo di oracoli.

Questa lettera fu consegnata dal Sig. Cavalier D’Agincourt a S. E. il Sig. Barone De Gerardo, il quale cortesissimamente si assunse il carico di ricapitarla, e qui aggiunta servirà di supplemento a quanto avevo mancato dire.

Tratto da: Il Cicoli, Regione degli Antichi Equicoli - Anno 1809 - Pag. 19-61 del manoscritto Simelli da manoscritti Lanciani 66 della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Roma - Estratto dal Quaderno n. 3 "La Valle del Salto nei disegni e nei racconti dei viaggiatori europei dell'Ottocento" a cura di Rodolfo Pagano e Cesare Silvi - www.valledelsalto.it