Sant'Anatolia e il Regno delle Due Sicilie nel periodo pre-unitario

 

Intervento al convegno

"BRIGANTI, LA NOSTRA STORIA"

Organizzato dal Circolo Culturale Ricreativo "Il Torrione"
tenuto il 16 giugno 2013 presso la Chiesa Parrocchiale di San Nicola in Santa Anatolia
 
Titolo dell'intervento:

Sant'Anatolia e il Regno delle Due Sicilie nel periodo pre-unitario

 

Roberto Tupone - Giugno 2013

 

Premessa

Un po’ di tempo fa, nel periodo dei festeggiamenti e dei grandi proclami per l’anniversario dei 150 anni dell’unità d’Italia, ero immerso nella consultazione di vari manoscritti riguardanti Sant’Anatolia e c’era qualcosa che non mi tornava. Via via che leggevo nuovi documenti vedevo delinearsi una situazione molto diversa dall’immaginario che mi ero fatto precedentemente. Fu in quel periodo che lessi il libro di Pino Aprile “Terroni”, nel quale la vicenda dell’Unità d’Italia viene raccontata con gli occhi del Sud, con gli occhi degli sconfitti della Storia, ed è grazie ad esso e al successivo approfondimento che sono riuscito a mettere a fuoco quelle strane sensazioni che provavo.

In genere siamo portati a pensare che andando avanti nel tempo, con il passare degli anni e dei secoli, ci siano sempre graduali e progressivi miglioramenti e che quindi, se una situazione oggi è povera e degradata, nel passato necessariamente lo era ancora di più. Quindi, se nel Sud oggi c’è un evidente degrado la situazione di centocinquant’anni prima doveva essere per forza molto più grave.

Per anni ho immaginato che il Regno di Napoli fosse stato arretrato e clericale, gretto e violento, un regno dove c’era il feudalesimo, il latifondismo e la burocrazia opprimente, un SUD governato dai borboni, re stranieri, che non avevano altro interesse che sfruttare il popolo e lasciarlo nella povertà e nell’ignoranza. Ho idealizzato anch’io Giuseppe Garibaldi che sul suo cavallo bianco, alla guida di un piccolo esercito di mille giovani garibaldini, ci liberava e ci donava la tanto agognata UNITA’ D’ITALIA.

Quand’ero più giovane, sono stato anche un po’ razzista verso i napoletani e la gente del SUD, nonostante io stesso fossi figlio di gente del SUD, e l’unica giustificazione alla mia ignoranza è che la Cultura Generale, la Scuola, lo Stato, per esaltare la raggiunta UNITA’, hanno sempre teso a svalutare ciò che c’era prima e, ancora oggi, tendono a nascondere o a minimizzare le nefandezze ed i soprusi, le stragi, gli stupri e i campi di sterminio, i saccheggi e le devastazioni, che i popoli del SUD dovettero subire prima dalle milizie e dalle leggi dei savoia, poi dalla pubblica sicurezza e dall’esercito dell’Italia unita.

Breve resoconto della situazione nel Regno delle Due Sicilie prima dell’Unità d’Italia

Il Regno delle due Sicilie fu il primo modello di “Stato moderno” in Europa, uno dei Regni più lunghi della storia Europea. I suoi confini rimasero praticamente immutati per 730 anni, dal 1130 al 1860. Fu culla di civiltà già nel medioevo dando alla luce i primi ed i più grandi poeti italiani come Cielo D’Alcamo, siciliano del sec. XIII, e grandi scienziati e letterati come Giovanbattista Vico, napoletano del sec. XVII, ma l’elenco è lunghissimo.

La prima università statale e laica al mondo fu fondata a Napoli nel 1224 da “Federico II” ed è ancora attiva. La prima e più importante istituzione medica d'Europa fu la “Scuola Medica Salernitana” fondata nel secolo XI e soppressa da Gioacchino Murat nel 1811. Dopo la soppressione le rimanenti "Cattedre di Medicina e Diritto" della Scuola Medica continuarono ad operare nel "Convitto nazionale Tasso" di Salerno per un cinquantennio, dal 1811 fino alla loro chiusura nel 1861, avvenuta per ordine di Francesco De Sanctis, ministro del neonato Regno d'Italia.

Il Regno delle due Sicilie era lo Stato maggiormente industrializzato d’Italia. Nel 1861, poco prima dell’unità, aveva circa 1.600.000 addetti su circa 3.130.000 complessivi: 51% degli addetti totali con il 35% di abitanti. Aveva i maggiori complessi industriali metalmeccanici d'Italia: Pietrarsa (vicino Napoli), Mongiana e Ferdinandea (in Calabria). Aveva la maggior industria navale d'Italia: Napoli e Castellammare.

Ebbe inoltre:

  • La prima linea ferroviaria d’Italia, la Napoli-Portici

  • La prima flotta mercantile d'Italia, seconda in Europa dopo l'inglese

  • La prima nave a vapore d'Europa, varata nel 1818

  • Il primo Transatlantico a vapore d'Italia, Sicilia 1854

  • La prima Compagnia di Navigazione del Mediterraneo

  • Il primo Codice Marittimo Italiano, redatto nel 1781

  • La terza flotta militare d'Europa, dopo Inghilterra e Francia

  • La prima istituzione del sistema pensionistico in Italia

  • La più alta percentuale d'Italia di medici per abitante

  • Il primo ponte sospeso in ferro d'Italia

  • Il più basso tasso di mortalità infantile d'Italia

  • Il più alto numero percentuale di amnistiati politici d'Italia

  • Le prime Legislazioni in Italia contro la tratta degli schiavi e il vassallaggio dei contadini

  • La minor pressione fiscale di tutti gli Stati Italiani

  • La prima assegnazione di "Case Popolari" in Italia

  • La prima istituzione di assistenza sanitaria gratuita

  • Il primo Ospedale Psichiatrico italiano

  • La prima galleria ferroviaria del mondo

  • Il primo telegrafo sottomarino d'Europa

  • Il Teatro San Carlo, primo al mondo, inaugurato nel 1737 ed ancora attivo

  • La prima Illuminazione a Gas di una città italiana, terza in Europa dopo Londra e Parigi, con 350 lampade

Nel primo censimento dello Stato unitario (1861), Napoli era il maggior comune italiano per abitanti (447.065 abitanti) e aveva più del doppio degli abitanti di Torino (204.715 abitanti) che era il secondo comune più grande d’Italia. Dopo che anche Roma fu annessa al Regno, nel censimento del 1871, Napoli aveva 448.335 abitanti, Roma 244.484, Palermo 219.398 e Torino 212.644. Roma e Milano superarono Napoli solamente nel 1931, settanta anni dopo l’unità d’Italia.

Tra il 1834 e il 1860 furono disegnate delle carte topografiche in scala 1:20000 del Regno delle Due Sicilie. L’opera non fu portata a termine a causa della fine del Regno. La tavola relativa al nostro territorio venne eseguita tra il 1851 e il 1858 e oggi possiamo ammirarne la splendida fattezza, ricca di dettagli, che nulla ha da invidiare alle carte topografiche militari moderne.

Il Regno delle Due Sicilie fu anche il primo stato Italiano per ricchezza tanto che al momento dell'annessione aveva circa il doppio in oro di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme. Aveva l’equivalente di 445 milioni di lire in oro dell’epoca su 670 milioni in totale. Il tesoro del Regno delle Due Sicilie, per la maggior parte custodito nel Banco omonimo, fu utilizzato per risanare i bilanci dei Savoia, in particolare del regno di Sardegna che era vicino al fallimento, e degli altri territori annessi, del pari indebitati. Il sistema fiscale piemontese fece aumentare vertiginosamente le tasse a carico dei napoletani, ed il gettito fu utilizzato per diminuire l'esazione in Piemonte. Questo aumentò la crisi sociale ed industriale napoletana, mentre l'industria ed il commercio piemontese ebbero la possibilità di essere incrementati.

Quando Napoli fu annessa al Regno d'Italia perse il proprio status di capitale. Come conseguenza, le strutture di governo statale presenti in città furono smantellate e moltissime attività commerciali ed industriali andarono in rovina o furono smontate e trasferite al nord, innescando una profonda crisi socio-economica.

La situazione preunitaria a Sant’Anatolia

Dopo aver aperto gli occhi sulla questione meridionale, ho provato a rileggere i documenti riguardanti il nostro paese con questa nuova ottica e mi sono accorto che in effetti, prima dell’UNIONE, la vita non era così male.

Dai documenti traspare uno situazione ben organizzata, con uffici pubblici distribuiti capillarmente, anche all’interno di piccole frazioni e con una distribuzione della terra piuttosto equa con terreni personali e terreni demaniali. La cosa stupefacente è l’assenza dei signorotti locali. Nei catasti ad esempio mi aspettavo di trovare i signori Colonna, i conti di Alba, i nostri feudatari, proprietari di tutte le terre o quasi. Invece ho scoperto la loro totale assenza. Non c’è traccia di loro nei catasti onciari della metà del ‘700 e non c’è traccia di loro in quelli più antichi di fine ‘600.

Nel Catasto Onciario del 1753, molto più completo e più recente di quello antico, le terre di Sant’Anatolia sono distribuite tra circa 55 proprietari terrieri residenti e circa 80 tra enti religiosi e persone residenti in altri luoghi.

  • Le prime 46 pagine del catasto contengono l’elenco di circa metà delle terre di proprietà di 55 “Cittadini” residenti a S.Anatolia.

  • Dalla pagina 48 alla pagina 63, per un totale di 16 pagine, c’è l’elenco delle terre di proprietà degli “Ecclesiastici e delle Chiese di S. Anatolia”, terre intestate ad una quindicina tra chiese, compagnie, cappelle, altari e canonicati vari. Queste terre, di proprietà della chiesa, erano ripartite tra i 4 o 5 ecclesiastici locali che, per la maggior parte, le affidavano ai braccianti in cambio di una parte del raccolto. Molte terre erano frutto di lasciti testamentari di privati in cambio di messe a suffragio (pro redemptione anima mea).

  • Dalla pagina 63 alla pagina 76, per un totale di 14 pagine, c’è l’elenco delle terre di proprietà di circa 45 “Forastieri” residenti in una quindicina di paesi dei dintorni.

  • Infine dalla pagina 76 alla pagina 82, per un totale di 7 pagine, c’è l’elenco delle terre possedute da 18 tra “Canonici forastieri, Chiese e Conventi” dei paesi nei dintorni.

Le terre sono tutte intestate a persone di sesso maschile, i capofamiglia o gli ecclesiastici. Dal numero delle pagine dei catasti si desume approssimativamente che per ¾ (62 pagine) le terre sono gestite dai residenti (cittadini ed ecclesiastici) mentre per ¼ (21 pagine) sono gestite da non residenti (forastieri o enti religiosi esterni). Da altre carte risulta inoltre la presenza di usi civici e di terre demaniali, non inserite quindi nei catasti, soprattutto i boschi ed i pascoli delle montagne. Analizzando meglio il catasto onciario si potrebbe essere molto più precisi in quanto esso, per ogni singolo proprietario, riporta la quantità di terre ed il loro valore catastale, ma questo è un lavoro a parte che, se si avrà tempo, si farà in seguito.

Nella visita pastorale del 1783 il vescovo di Rieti mons. Marini scriveva che la popolazione di Sant’Anatolia era di "circa 430 anime, molte delle quali sparse fuori dalla terra benchè non in molta distanza", ma non specificava il numero di famiglie. Nella visita pastorale del 1828 il vescovo Gabriele Ferretti scriveva che la popolazione era “composta di 443 anime, divise in 64 famiglie circa“.

Quindi se i capofamiglia, che nel 1753 erano 55, nel 1828 fossero stati dello stesso numero, 55 su 64 famiglie erano proprietarie terriere e solo le rimanenti 9 non avevano terre. Questi nove capofamiglia che non “pittavano a catasto”, potevano fare da braccianti per le terre di proprietà della chiesa e dei forastieri, oppure svolgere altre professioni (l’allevatore, il porcaro, il calzolaio, il commerciante, l’apicoltore, l’ufficiale di stato civile, il militare, etc.).

Nella stessa visita pastorale del 1828 anche la situazione dal punto vista del clero era molto più organizzata di quella odierna. C’era un parroco e tre canonici: don Pietro Placidi di anni 46, don Arcangelo Amanzi di anni 80, don Giuseppe Placidi di anni 52 e don Angelo Falcioni di anni 54.

Nel 1783 c’era un abate parroco, cinque canonici adulti, un canonico diciottenne e tre giovanissimi, in tutto nove. Oggi con difficoltà riusciamo ad ottenere un parroco nel nostro paese e, dopo che è morto don Giovanni Di Gasbarro (1912-2001), l’ultimo nativo di Sant’Anatolia, è da circa 15 anni che si alternano dei parroci esterni, spesso extra comunitari, che non sono a conoscenza delle situazioni particolari e dei conflitti locali, degli usi e delle tradizioni paesane, e che quindi hanno grande difficoltà a relazionarsi con i propri fedeli.

In un documento del 1811, che riporta una perizia su delle terre che il proprietario aveva lasciato in eredità ai quattro figli (famiglia Amanzi), traspare un senso di equità, di giustizia e un’organizzazione che non ha nulla da invidiare alla situazione odierna con tribunale, cancelleria, periti, ecc. A Pescorocchiano c’era l’ufficio del Giudice di Pace.

Nei registri dello Stato Civile del 1809-1865, ogni frazione dell’attuale Comune di Borgorose risulta essere Comune a se stante o al massimo era accorpata con un’altra frazione ad essa adiacente (ad esempio Torano e Grotti, Borgocollefegato e Ville, Sant’Anatolia e Cartore, Corvaro e Santo Stefano, ecc.).

Nel 1811 il Comune di S. Natoglia risulta far parte della Provincia dell'Aquila, Distretto di Cittaducale, Circondario o Quartiere di Peschio Rocchiano. Negli anni immediatamente successivi continua a figurare Comune a se stante e si fa riferimento a Borgocollefegato per la prima volta il 24 gennaio del 1814 con un timbro con su scritto COMUNE DI BORGOCOLLEFEGATO apposto su un attestato di battesimo e la firma di colui che forse fu il primo Sindaco di Borgocollefegato: Luigi Orsi.

I comuni principali del Circondario di Borgocollefegato erano: Borgocollefegato, Castelmenardo, Corvaro, Poggiovalle, Sant’Anatolia, Spedino e Torano. Gli altri comuni confinanti con Sant’Anatolia erano Magliano, Marano e Rosciolo. Sant’Anatolia, come anche gli altri paesi, aveva il proprio ufficiale di stato civile eletto tra i suoi gli abitanti e dal 1809 al 1865 se ne alternarono 11 diversi: Basilio Luce, Angelo Falcioni, Giovan Candido Amanzi, Pasquale Luce, Domenico Scafati, Giuseppe Panei, Gennaro Luce, Pietro Vincenzo Falcioni, Ferdinando Scafati, Giustino Rubeis e Giustiniano Di Gasbarro.

In genere gli uomini davano il cognome ai figli, ma in più di un caso, nonostante fossero uniti in matrimonio, erano le donne a dare il cognome ai figli. Pare che questa scelta venisse fatta per evitare l’estinzione di un cognome, di una famiglia. Consultando i processetti matrimoniali, la differenza tra uomo e donna invece non traspare. Quando le coppie si sposavano c’era bisogno dell’assenso dei quattro genitori, non bastava quello del padre, e nel caso di genitori morti, si cercava l’assenso dei nonni.

Nel 1851 pochi anni prima dell’unità S.Anatolia aveva 572 abitanti.

Servizio militare nel Regno delle Due Sicilie e nel Regno d’Italia

Per reprimere le rivolte, più che per assicurare la difesa contro eventuali nemici esterni, Il Regno borbonico aveva bisogno di soldati che naturalmente dovevano essere giovani del regno. Il servizio militare non era obbligatorio per tutti, ma ogni anno il governo decideva di quanti uomini aveva bisogno e poi li ripartiva tra le varie province e quindi tra i vari comuni.

Tutti i sudditi in età compresa tra i 18 ed i 25 anni erano soggetti all’obbligo del servizio militare, mediante estrazione a sorte nella misura di un prescelto ogni mille. Erano esclusi dalla leva di terra i distretti marittimi e le isole di Ponza e Ischia, destinati a fornire il contingente per la Real Armata di Mare.

Per antico privilegio, i sudditi siciliani non erano soggetti agli obblighi di leva ma in circa 12.000 servivano nell’Esercito in qualità di volontari. La durata del servizio militare era di 10 anni, di cui 5 in servizio attivo ed altri 5 in congedo illimitato nella riserva. Per la Cavalleria, il Genio, l’Artiglieria e la Gendarmeria, la ferma era di 8 anni, tutti di servizio attivo.

L’arruolamento volontario e il prolungamento della ferma assorbiva un gran numero di aspiranti, tanto che la richiesta di coscritti era molto ridotta. Infatti contro un gettito di circa 50.000 reclute, il contingente di leva non era superiore alle 12.000 unità.

Il 26 maggio 1861, subito dopo l’UNITA’ venne autorizzata dai SAVOIA una leva di cinquantaseimila uomini nelle province napoletane e il 30 giugno fu autorizzata la leva in Sicilia sui nati nel 1840. Il 13 luglio 1862 la leva militare divenne obbligatoria per tutti gli “ITALIANI” nati nel 1842. La durata del servizio di leva venne fissata in undici anni di cui 5 effettivi e 6 di congedo. Durante il congedo il soldato tornava a casa ma rimaneva a disposizione in caso di necessità. Nel 1876 gli anni di servizio vennero portati a dodici di cui tre effettivi e nove di congedo. In generale, la leva doveva essere prestata lontana dai luoghi natii e fu obbligatoria per tutti i maschi ventenni. Dagli obblighi di leva ci si poteva sottrarre soltanto mediante l’esonero a seguito del pagamento di una cospicua somma: questo meccanismo introduceva uno strumento di divisione cetuale, perché soltanto i ceti abbienti erano in grado di far fronte all’onere finanziario.

L’introduzione della leva obbligatoria nel meridione sollevò un forte malcontento, dando luogo a frequenti fenomeni di renitenza e di diserzione. Le famiglie, specialmente nel Mezzogiorno agricolo, venivano private per alcuni anni di fondamentale forza lavoro, con il rischio di finire sul lastrico. Molti contadini dovettero vendere parte delle loro terre ai più ricchi per poter pagare l’esonero e tenere i figli a casa.

Solamente 55 anni dopo l’UNIONE la prima guerra mondiale provocò tra i soldati italiani circa 650.000 morti, 947.000 feriti e 600.000 tra prigionieri e dispersi. Inoltre circa 240.000 soldati furono condannati a morte, all’ergastolo o al carcere in 870.000 processi per fuga, diserzione, rivolta, disubbidienza, ritardo, autolesionismo. Il 90% dei soldati morti, circa 500.000, erano del SUD, i cafoni meridionali a cui il Regno aveva promesso terre e condizioni di vita migliori.

C’era una particolare differenza nella concezione della guerra tra Borboni e Savoia: i Borboni, nella loro umanità, avevano il motto “uomo che fugge è buono per un’altra battaglia”. I Savoia al contrario davano incarico ai carabinieri di uccidere chi per paura fuggiva dal nemico o chi non aveva il coraggio di attaccare. E’ famoso l’uso da parte dei Savoia della decimazione in caso di ammutinamento o di codardia dei propri soldati.

Cesare De Simone, nel libro “L’Isonzo mormorava”, scriveva a proposito della prima guerra mondiale:

"Tutte le volte che c'era un attacco arrivavano i carabinieri. Entravano nelle nostre trincee, i loro ufficiali li facevano mettere in fila dietro di noi e noi sapevamo che - quando sarebbe stata l'ora - avrebbero sparato addosso a chiunque si fosse attardato nei camminamenti invece di andare all'assalto. Questo succedeva spesso. C'erano dei soldati, ce n'erano sempre, che avevano paura di uscire fuori dalla trincea quando le mitragliatrici austriache sparavano all'impazzata contro di noi. Allora i carabinieri li prendevano e li fucilavano. A volte era l'ufficiale che li ammazzava a rivoltellate."

I soldati di Sant’Anatolia morti nella prima guerra mondiale furono 19: Amanzi Augusto, D'Agostino Pasquale, De Amicis Giuseppe, Falcioni Giuseppe, Innocenzi Franco, Lanciotti Antonio, Luce Luigi, Luce Vincenzo, Peduzzi Domenico, Peduzzi Tommaso, Placidi Antonio, Placidi Filippo, Rubeis Giuseppe, Rubeis Luigi, Sabatini Americo, Spera Antonio, Spera Giuseppe, Spera Natale e Tupone Alfredo.

Esodo

Durante la guerra per la definitiva annessione del Regno delle Due Sicilie durata circa 10 anni, tra il 1860 ed il 1870, furono bruciati e rasi al suolo dall’esercito piemontese circa sessanta paesi del SUD, vennero arrestate circa 500.000 persone per motivi politici, e vennero uccise circa un milione di persone su nove milioni e mezzo di abitanti del Regno, oltre all’intera economia distrutta e alla diaspora di molte generazioni.

Per il popolo del SUD non rimasero molte alternative:

  • Potevano chinare la testa e perdere la propria dignità, assistere impotenti alla cattura dei propri figli, strappati per 5 anni alla leva militare, e vederli poi morire in guerra. Perdere il lavoro, soffrire e subire in silenzio. Fare la fame, perchè alla fame erano stati ridotti !

  • Potevano ribellarsi o dire ai propri figli o fratelli più giovani di farlo, di darsi alla macchia, di non andare al militare, ma se proprio bisognava impugnare un’arma, di farlo per combattere il nemico piemontese ed essere partigiani, sperando di vincere e non di morire, come invece accadde ai più. E questi furono chiamati “Briganti” !

  • Potevano fuggire, il più lontano possibile, dall’altra parte del mondo. E questo in moltissimi fecero...

Durante il Regno delle Due Sicilie l’emigrazione era quasi assente in quanto le persone vivevano nel benessere e nella pace e non avevano nessuna intenzione di andare via. Dopo l’Unione si stima che a causa della povertà, della mancanza di lavoro, del malessere generale, nonostante i nove milioni e mezzo di abitanti iniziali del Regno, circa 26 milioni di persone in varie ondate emigrarono in parte nel nord Italia, in parte in tutto il mondo e ancora oggi a distanza di 150 anni l’emigrazione non si è arrestata.

Ho fatto una ricerca sommaria sulle persone nate a Sant’Anatolia che sbarcarono in Argentina tra il 1885 e il 1953. Ho rilevato che emigrarono e si stabilirono in Argentina circa 200 individui tra cui a volte famiglie intere. Di questi una trentina tornarono a Sant’Anatolia, gli altri rimasero in Argentina. Purtroppo per mancanza di tempo e di mezzi non ho potuto fare ricerche sull’emigrazione verso altre nazioni e non sono riuscito a quantificare le persone che emigrarono nel NORD Italia, ma se dovessi azzardare una ipotesi penso che i santanatoliesi che emigrarono verso Stati Uniti, Europa, Nord Italia, ecc. furono almeno altrettanti se non di più.

Oggi, la presenza di una folta comunità di compaesani a La Plata (Buenos Aires) è un dato conosciuto da tutti e grazie alla RETE i discendenti degli emigranti possono finalmente riallacciare i rapporti con i discendenti dei compaesani rimasti in Italia.

Il mio trisnonno era un “brigante”

Nella notte fra il 7 e l’8 giugno 1863 una banda di circa trenta briganti "la banda di Cartore" bussò alla porta del palazzo di don Costantino Placidi chiedendo del pane. Questi ordinò al garzone Pietrantonio Piccinelli di aprire il cancello e di dare il pane ai briganti. Era invece una trappola poiché i briganti entrarono e misero a sacco il palazzo, rubando tutto quello che poterono.

Dopo il sacco i briganti presero la strada che conduceva a Rosciolo. Tenevano sequestrati il parroco Placidi ed i suoi garzoni Pietrantonio Piccinelli e Domenicantonio Luce. Dopo aver percorso circa un miglio di strada, rilasciarono il Placidi e il Piccinelli mentre il Luce, portato a spalla fin sul monte un sacco contenente cacio, fu rilasciato la mattina dell’8 giugno. Costantino Placidi fu rilasciato a condizione che avesse sborsato entro 24 ore ducati 1.000 e che non avesse fatto denunzia del sacco sofferto. Il Placidi si rifugiò a Luco.

Pochi giorni dopo, il 27/06/1863, Pietrantonio Piccinelli fu arrestato, con mandato di cattura spiccato dal giudice istruttore presso il tribunale del circondario di Aquila, sotto l’imputazione di associazione a banda armata, e grassazione. Il motivo dell’arresto fu che egli avrebbe aperto il cancello ai briganti per permettere loro di saccheggiare il palazzo Placidi. Durante il viaggio di traduzione dal carcere di Fiamignano a quello di Cittaducale, Pietrantonio morì per apoplessia cerebrale (ictus) nel "Casale Pallante". Era il 4 luglio 1863, la moglie Maria era incinta del quinto figlio. Nelle tasche della giacca gli fu rinvenuta la seguente lettera:

Stimatissimo signore D. Costantino, vi fo conoscere lottimo stato di mia buona salute come spero che si di voi e di tutta la nostra famiglia. Vi fo conosciere che in carcere io ci soffrisco assai, dunque lo prego di fare limposibele di aiutarmi. Signore, io per fare sempre la vostra volontà mi ratrovo dentro a queste prigioni, dunque adesso è il tempo di spentere il denaro, perché colle denaro si fa tutto. Voi ne imprestate tanto quasi senza custo, adesso, se ne spentete pochi per me, credo che ci sia un poco di custo, e per la coscienza, se voi conziderate che io non ci sto per corba mia, ma bensì per corba vostra, che, se voi non mi ordinavi di carcilo, io certe sia che non saria caduto in questa desgrazia

Nella sua dichiarazione del 21 aprile del 1864 Costantino Placidi asseriva: "Simili precisioni non furono date ad arte nelle precedenti dichiarazioni pel solo riflesso di non inciampare io nei rigori della legge Pica; e mi misi di accordo col detto garzone Piccinelli, onde dichiarasse egli di aver da sé aperto il portone ai briganti, mentre con mio desiderio che si menasse il pane dalla finestra"