L'occupazione tedesca, i rifugiati stranieri e le spie

Tratto dai racconti di Angelo Amanzi, Maria Spera, Vincenza Spera e Lucrezia Rubeis. Con la collaborazione di Candida Amanzi che ha registrato i racconti del padre (grazie Candida!). All'interno ulteriori precisazioni di Pierluigi Felli. Scritto da Roberto Tupone tra agosto e settembre 2021

In seguito all’armistizio dell’8 settembre del 1943 i prigionieri che si trovavano nel campo di concentramento di Avezzano furono liberati e si ripararono nei paesi vicini, per nascondersi e trovare del cibo. Nessuno sa esattamente il numero di quelli che si rifugiarono a Sant’Anatolia in quanto chi li ospitava cercava di mantenerli celati. Non riconoscendo sempre la differenza tra le varie lingue, era opinione comune che i rifugiati fossero inglesi e polacchi (ma poi si saprà che ce n’erano anche di altre nazionalità).

Due rifugiati erano ospitati dalla famiglia Amanzi (1), tre da Pietrantonio Spera (2), due da Filippoccio (3), uno da Roccone (4), due da Francesco Sgrilletti (5) (agliu rapale), due dai Di Gasbarro (6), uno da “Quissi de Spiritigliu” (7), due da zia Peppina (8) (in quel periodo il marito era emigrato per lavoro in Argentina e lei viveva con i suoi tre figli in una delle baracche costruite dopo il terremoto del 1915. Dopo la guerra Peppina con i figli raggiungerà il marito).

I rifugiati dormivano nei fienili o nelle cantine, mangiavano nelle case e si facevano capire dalla popolazione con i gesti. Molti erano coloro che non potendo dare vitto e alloggio si offrivano per aiutarli perché impietositi dalla loro condizione. Angelucciu gliu scarparo (9) ad esempio, che beveva parecchio e spesso era un po’ su di giri, passava ogni tanto in casa Spera e rivolgendosi agli stranieri, diceva: “vu vulé cinquan lir o pan” che voleva dire, in un misto tra francese e dialetto: “Voi volete 50 lire o il pane?”. Non era facile comunicare con i rifugiati e a volte veniva chiamato in aiuto, invitandolo a cena, Alfredo “l’Englese” (10) che era stato nel Regno Unito per lavoro e conosceva alcune parole in inglese.

Nei mesi in cui vissero nella casa degli Spera, i rifugiati furono trattati come membri della famiglia. Era inverno e la sera intorno al caminetto i tre raccontavano le loro storie e Maria, che aveva appena nove anni, intonava delle canzonette allora molto in voga. Erano canzoni fasciste, che andavano contro l’Inghilterra, cantate da lei ingenuamente. A sentirla gli stranieri e tutta la famiglia ridevano.

La casa degli Amanzi si trovava all'inizio di “Canturiu“ vicino alla Fonte di giù. Una sera, all'ora di cena, si presentò un tipo che, quando vide i due rifugiati, li salutò nella loro lingua (in seguito si saprà che il tipo era soprannominato Rex Men e che padroneggiava sette lingue). Era mal vestito e tutti pensarono che anche lui fosse un prigioniero inglese in fuga. In casa c'era la mamma Candida Fracassi con otto figli (Italo, il più grande, aveva 18 anni ed era al fronte). Tutti accolsero lo straniero prima a cena e poi a dormire nella stessa stanza dove dormivano gli altri due. La mattina si alzò molto presto e uscì di casa.

Quando i rifugiati incontrarono Angelo - "Jango, Jango" così lo chiamavano - gli dissero che la mattina l'inglese era uscito per fare delle faccende ma che poi stranamente non era più rientrato. Il comportamento era troppo sospetto e pericoloso. Era arrivato il momento per i rifugiati di andare via. D’altra parte si era sparsa la voce che un divisione dell’esercito dei tedeschi si dirigeva verso il nostro territorio.

Candida Fracassi preparò gli zaini mettendo all'interno bevande, prosciutto, formaggio e tutto il necessario per il viaggio. I due, per non essere riconosciuti, consegnarono le divise militari ad Angelo che diede loro degli abiti civili.

Nel frattempo, anche in casa Spera, fervevano i preparativi per la fuga. Gli zaini erano pronti, con il cibo e tutto il necessario per il viaggio e i rifugiati avevano indossato gli abiti da civile. Arrivò il momento dell’addio che fu molto commovente in quanto in quei due mesi di permanenza si era instaurato un legame di reciproco affetto. Prima di partire Quinta Lanciotti (11), (la fidanzata e futura moglie di Francesco Spera, uno dei fratelli di Maria e Vincenza), coetanea dei rifugiati, scambiò con loro gli indirizzi.

Vennero infine accompagnati sotto il monte Velino e gli fu indicata la strada per raggiungere Cassino, passando per le montagne, “costa costa”. Erminio Tupone indicò la strada agli ospiti di Pietrantonio ed Angelo indicò la strada ai suoi. Della loro sorte non si saprà più nulla (solo l’ospite inglese della famiglia Spera, dopo la guerra tornerà un paio di volte a Sant’Anatolia, con la sua famiglia, a salutare e ringraziare i suoi benefattori).

Alcuni rifugiati, non valutando bene il pericolo, decisero di rimanere nascosti a Sant’Anatolia. Sappiamo che rimasero in paese quelli ospitati da Filippoccio, da Roccone e da zia Peppina.

Nella notte tra il 17 e 18 dicembre 1943 venne fatto l'accerchiamento e i tedeschi entrarono in paese. Era mattina, ancora buio, Maria e Vincenza ricordano che si ritrovarono i tedeschi in casa, con pistole e fucili puntati, che cercavano gli uomini anche sotto ai letti. Ciccone, il padre di Lucrezia, fece finta di essere malato per non essere portato in piazza e, per imbuonirseli, offrì loro delle salsicce.

Vi fu il rastrellamento e tutti gli uomini vennero portati in piazza. Lucrezia ricorda che Remo Spera, il suo futuro marito quindicenne, in quell’occasione per paura si nascose in un orticello in località “Terrone”.

Purtroppo però a Sant’Anatolia c'erano alcuni “fascisti”, forse un paio, che facevano da spia e collaboravano con i tedeschi.

Franceschinu (anche detto “Faraone”) fece la spia ai tedeschi dicendo loro che c'erano due prigionieri nascosti sotto il pavimento della casa di zia Peppina (Franceschino si rivolse a lei davanti ai tedeschi dicendo: “e su su zia Peppì, fagli uscì fori, fagli uscì fori”). I tedeschi, dopo aver arrestato i prigionieri, bruciarono la baracca (quasi tutti quelli che abitavano nelle baracche avevano scavato sotto il pavimento per ricavarne delle cantine e dei nascondigli per mettere il cibo ma anche per nascondere cose o persone).

Sempre in seguito a delle spiate furono trovati anche altri rifugiati. I tedeschi in quell’occasione bruciarono la stalla di Roccone e la baracca di Filippoccio (riguardo a questo, fu il genero di Filippoccio, marito di sua figlia, “Rex Men”, il fascista, nativo di Ovindoli, che fece la spia ai tedeschi contro il suocero a cui venne bruciata casa) (12).

Racconterà Vincenzo Rubeis (13) (zio di Lucrezia) che i tedeschi andarono con il forcone nel suo pagliaio, ma non solo nel suo, ad inforcare la paglia in cerca di prigionieri. Da lui non ne trovarono.

I soldati perquisirono anche le altre case e trovarono molte prove della presenza dei rifugiati stranieri. In casa Amanzi trovarono le divise ad esempio. Angelo allora si inventò che le divise le aveva trovate in campagna e accompagnò i tedeschi in una grotta dove realmente "altri" rifugiati nei giorni precedenti alla fuga avevano dormito. Tornarono quindi indietro e, appena giunti in casa, il graduato chiesero ad Angelo di rimediare "uno zappone" o "un piccone". Lui però non capiva cosa gli veniva chiesto, anche perché il piccone, nel dialetto di Sant'Anatolia, si chiama "gravina".

Allora questi mimò l'attrezzo per scavare e Angelo disse rivolgendosi alla sorella: "E' arrivata la nostra morte!". Era convinto che il tedesco volesse che lui scavasse la sua stessa fossa. Cominciò quindi a scavare ma il tedesco gli ordinava di scavare di più, e più il piccone andava in profondità, più Angelo si preoccupava. Nel frattempo la sorella e la mamma piangevano. Ad un certo punto il tedesco disse una cosa come "SCION!!!! e gli fece capire che doveva fermarsi. Poi rivolgendosi alla sorella disse in italiano "prendere, prendere" e tutti pensarono che era giunta la fine. Il tedesco invece stava chiedendo di prendere le divise e, dopo averle prese, le gettò nel fosso e le fece interrare (probabilmente la parola “scion” che Angelo interpretò come “fermati”, era “schön” che significa “bellissimo” o “bellissima”. Forse il tedesco si stava rivolgendo alla sorellina dicendogli “Bellissima, prendi le divise!”.

Poi disse ai presenti di stare tranquilli e di non fare nulla, che sarebbero passati altri camerati, ma che non dovevano preoccuparsi. I tedeschi quindi andarono via, ma dopo qualche minuto arrivò il "peggiore", il più pericoloso, l'assassino fascista Rex Men che chiese ai presenti che fine avevano fatto quelli con cui lui aveva dormito nei giorni precedenti. Angelo, diciassettenne, iniziò prima a negare e poi a non dire più nulla. Venne quindi portato all'ara Panei e fu l’ultimo di trentaquattro civili ad essere messo al muro per essere fucilato. Ricorda che trovò i trentatré uomini addossati alla roccia che piangevano disperati e sette soldati tedeschi con le mitragliette puntate che attendevano l’ordine per sparare. In quel frangente arrivò una jeep militare tedesca con un interprete in piedi che portò l’ordine del comandante tedesco di fermare l'esecuzione (“non abbiate paura, siete liberi, il comandante ha detto che voi non siete militari, siete borghesi e non verrete giustiziati!”).

Tutti allora andarono a ringraziare il comandante (“il generale”) delle S.S. e Angelo ricorda quell’uomo come una bravissima persona che non capiva l’italiano ma che sorrideva ed era gentile e umano con gli uomini appena graziati.

La stessa sera, intorno a mezzanotte, un gruppo di cecoslovacchi, che erano agli ordini dei nazisti, bussarono con violenza alla porta di casa Amanzi. Poiché nessuno aprì, i militari la sfondarono con la forza, entrarono e mandarono tutti fuori di casa, con i vestiti, i letti, le sedie e quant'altro non servisse loro e si stabilirono nella casa. La famiglia Amanzi dovette cercarsi un nuovo rifugio e lo trovò al “Terrone”, in una casa terremotata, vicino alla chiesa di San Nicola.

Il comando principale delle S.S. venne posto nel paese di sotto, nella casa della famiglia dei Placidi, sita nei pressi del Santuario di S. Anatolia. Un secondo comando venne posto nei Casali Panei a Collepizzuto. Nel paese di sopra invece, nella casa parrocchiale, i tedeschi fecero un piccolo comando, con pronto soccorso ed ospedaletto.

Un giorno Maria, inseguita per gioco dalla sorella Vincenza (14), andò a sbattere contro un muro e si fece molto male. Lei ricorda che venne portata in infermeria e curata con molta gentilezza dai tedeschi.

I Cecoslovacchi che arrivarono insieme ai tedeschi erano circa ottocento. I paesani, dopo un timore iniziale, cominciarono a conoscerli e non ebbero più paura di loro, anzi, li consideravano grandi lavoratori, piuttosto innoqui. Solo le S.S. facevano molta paura.

Un giorno Rex Men trovandosi in un punto rialzato in località "Pietre Miscie", vide un fuggitivo che

I tedeschi erano sempre alla ricerca di cibo e rubavano in tutte le case. In casa di Pietrantonio c’era un sottoscala il cui accesso era stato nascosto con una credenza. I tedeschi non si fecero ingannare e in pochi attimi scoprirono il nascondiglio e rubarono tutto il grano.

Sotto la piazza della chiesa vi era una grotta, una sorta di cantinola dove gli Spera avevano nascosto il vino. Nella cantina vi era una piccola cisterna in pietra levigata dove veniva pestata l’uva e c’erano dei canaletti dove fuoriusciva il vino che poi veniva messo ad invecchiare (ancora si trova la). Prima di andare in montagna gli uomini, per non farsi derubare, avevano messo una grossa quantità di pietre davanti alla grotta per celarne l'ingresso (Maria ricorda che zio Filippo, il fratello di suo padre, prima di andare in montagna con le pecore, si metteva sul balconcino della sua casa a sorvegliarne l’ingresso). Anche in questo caso i tedeschi non si fecero ingannare, spostarono le pietre e rubarono il vino. I tedeschi rubavano soprattutto il cibo, si prendevano le mucche e le galline, le ammazzavano e le mangiavano.

Generalmente non c'era dialogo con i tedeschi in quanto venivano considerati nemici. Le persone avevano paura di loro e quando li incontravano rimanevano in silenzio e timorose. Le ragazze più grandicelle cercavano sempre di evitarli perché avevano paura delle possibile violenze. Questa paura si è rivelata infondata in quanto non risulta ci sia stata una donna stuprata. Generalmente, quando portavano qualcuno nel comando, erano sempre uomini a cui cercavano di estorcere informazioni impaurendoli o torturandoli.

Solamente una donna, zia Gina (15), in quanto fidanzata con un partigiano di Avezzano, Mario Celio, subì gravi violenze dai tedeschi (a causa delle torture rimarrà scioccata e non riuscirà mai più a riprendere una vita normale).

Tra aprile e maggio del 1944 giunse la notizia che in quelle colline e in altre parti d’Abruzzo sarebbe passato il fronte e i tedeschi cominciarono a scavare trincee, ad erigere barricate in pietra ed a piazzare filo spinato.

Iniziarono i bombardamenti degli aerei alleati i quali scendevano in picchiata verso il paese per sganciare le bombe e poi risalivano con un terrificante rumore di motori. Una donna, che camminava insieme ad una bambina di 10 anni (16) nei pressi del fontanile, alla vista di un aereo, prese la bambina per mano e si nascosero in una grotticella vicino alle stalle. Una bomba, che era diretta contro la casa dei Placidi dove era il Comando, per errore cadde vicino a loro uccidendole. Un'altra bomba esplose nel cimitero spallando una parte del muro di cinta.

Lucrezia ricorda che, al rumore degli aerei, tutti quelli che abitavano nei pressi della sua casa, fuggivano sul “Colle Alto”. Nicolina Spera (17), che era incinta, una notte, fuggendo impanicata per il terrore delle bombe, cadde di testa in una trincea (18). Nel buio non aveva visto il fossato e, nonostante le gravi ferite, sopravvisse e non perse il bambino.

Al sopraggiungere della guerra, nel maggio del 1944, i tedeschi ebbero l’ordine di sfollare l'intera popolazione perché a Cassino erano sbarcati gli americani. Per evitare che i civili potessero subire i danni dalla guerra invitarono tutti ad andar via.

Tutti quindi, tranne i più anziani, fuggirono a Cartore, dove si rifugiarono inizialmente in Fiui (in val di fua). Gli uomini e le donne di casa Spera la notte dormivano all’interno di alcune grotte molto profonde che li proteggevano, oltre che dalle bombe, anche dalla pioggia e dai venti. I familiari di Lucrezia dapprima dormirono in un pagliaio a Cartore poi, con i cesti in testa pieni di provviste, si incamminarono nella valle di fiui dove raggiunsero gli altri e dove passarono una notte.

Nei giorni successivi si spostarono tutti in montagna, sulla Duchessa, dove raggiunsero i pastori. Lucrezia ricorda che la mamma scaldava una grossa pietra sulla quale appoggiava l’impasto per cuocere la pizza. La farina era fatta con le cicerchie tritate e la crusca. Il pane era tanto nero quanto buono, data la grande fame che tutti avevano. Oltre al pane si mangiava quasi esclusivamente formaggio e ricotta di pecora appena fatta.

Le famiglie dormivano vicino alle capanne dei pastori all'aperto. Venivano poste delle pietre, una o due file a terra, per dividere le differenti case, in maniera che uno potesse riconoscere qual era la sua e qual'era quella degli altri. Più o meno rimasero circa un mese in montagna.

Mentre il resto della famiglia era in montagna, i genitori di Pietrantonio, Erasmo Spera e Giovannina Piccinelli, troppo anziani per andare fino in montagna, erano rimasti a Sant’Anatolia. Un giorno mentre Giovannina stava cucinando la "pecora agliu cutturu" i tedeschi le si avvicinarono, gli puntarono la pistola alla tempia e gli rubarono la carne appena cotta. Non ci misero molto in seguito ad imparare la parola “nonna” e spesso bussavano alla sua porta, con modi meno brutali, chiamandola: “nonna, nonna!” e chiedendole del cibo.

A giugno del 1944, dall’alto delle montagne, i paesani cominciarono a vedere le truppe tedesche che si ritiravano. Man mano che si allontanavano facevano saltare le centraline elettriche per impedire le comunicazioni e facevano esplodere le strade per rallentare l'avanzata degli “alleati”.

Quando le famiglie decisero di tornare in paese trovarono un completo disastro, una desolazione. In strada c'era di tutto: sedie, mobili distrutti, caos ovunque. In casa di Angelo, era rimasta solo la paglia dove avevano dormito i cecoslovacchi e tanta sporcizia. Non poterono rientrare subito perché il tetto era sfondato: era caduta una bomba inesplosa (detto “spezzone”, bomba di piccolo calibro) lanciata dai cacciabombardieri. L'altra stanza aveva la trave principale piegata per la caduta di una seconda bomba. Angelo e la sua famiglia dovettero risistemare tutto e ci vollero dei mesi prima di poter rientrare.

A Cartore invece, non essendoci strade carrabili di collegamento, ma solo sentieri, la gente che vi abitava, dato l'isolamento e la lontananza da S. Anatolia, non ebbe gravi ripercussioni dalla guerra.

Finita la guerra Rex Men, genero di Filippoccio (abitava vicino alla casa di "Strilla") cominciò a venire spesso in paese. Un giorno passò davanti alla casa degli Amanzi e venne riconosciuto. Angelo spiegò a Italo, il fratello più grande che era stato al fronte, chi era costui e cosa aveva fatto e insieme decisero di fargliela pagare e lo seguirono fino in piazza San Nicola. Stava andando nella cantina di Nunzio Amanzi, aveva appuntamento con altri amici con i quali solitamente giocava a carte. Angelo, Italo e Berardino (il figlio dell'inglese) lo seguirono nella cantina. "Le sedie volavano dentro a quella cantina" – ricorda Angelo – e ricorda anche che dovettero essere “parati” altrimenti senza dubbio lo avrebbero ammazzato. Lo spione si era nascosta sotto ad un tavolo e i suoi amici, tra i quali figura Eligio d’Ignazio, cercarono di proteggerlo. (“Lo hanno protetto per non farlo ammazzare!”... "Lo ammazzavamo eh?”... “Perché era stato lui a mandarmi alla fucilazione!” dirà in seguito Angelo). Quel giorno i suoi amici fecero capire a Rex che era meglio per lui se spariva da Sant’Anatolia e Angelo da quel giorno ne perse completamente le tracce.


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Note

  1. In casa Amanzi abitava Candida Fracassi, quasi cinquantenne (vedova di Ercole Amanzi morto due anni prima), e i suoi figli: Maria Lavinia, Italo, Angelo, Bartolo, Pasquale, Luigi, Secondina, Giovanni e Teresa. Italo però avendo 19 anni, quell’anno era militare al fronte.
  2. In casa Spera abitavano oltre a Pietrantonio (1886) e Luisa Luce (1893), i loro figli: Anatolia, Gioconda, Remo, Vincenza e Maria. Angela, la più grande, era sposata con Vincenzo Rubeis ed avevano un figlio piccolo Pierino. Domenico e Francesco erano al fronte. Nella stessa casa vivevano anche Rasimuccio Spera e Giovannina Piccinelli i genitori di Pietrantonio. In realtà Pietrantonio era figlio di Filippo Spera, fratello di Rasimuccio, ma quando era morto Filippo a 39 anni nel 1897, Rasimuccio aveva sposato in seconde nozze Giovannina.
  3. Filippoccio era il soprannome di Giovanni Zuccaretti (1874), figlio di Filippo e Maria Di Gregorio, marito di Maria Di Giovanbattista. Avevano quattro figli: Angela Maria (sposata con Antonio Calisse con una figlia Domenica), Concetto (sposato con Delfina Lanciotti e con due figli Antonia e Giovanni), Filippa e Anatolia.
  4. Roccone era il soprannome di Luigi Rubeis (1915), figlio di Giuseppe e Cristina Sgrilletti, marito di Gina Di Giorgio (1914). Avevano tre figli: Maria Cristina, Giuseppe e Raimondo (dopo la guerra avranno altre due figlie Onorina e Augusta).
  5. La famiglia Sgrilletti, anche detti “Quissi de Zincheti” era composta da Francesco (1883) (figlio di Giovanni e Marta Felice Spera), dalla moglie Maria De Santis (1886) e dai figli e nipoti: Giovanni (1910) che nel 1937 aveva sposato Caterina Falcioni (avevano tre figli Maria Teresa, Domenicantonio, Maria Elide e Vittorio). Vincenza, sposata con Vincenzo Luce (avevano due figli Angelo e Pietro). Cesira sposata con Severino Sgrilletti (avevano due figli Andrea e Leonella). Vincenzo sposato a Torano.
  6. La famiglia dei Di Gasbarro era composta da Giuseppe (1884), la moglie Maria Scafati (1875) e i figli: Antonio (nel 1942 aveva sposato Maria Gaetana Rubeis), Giustino (nel 1936 aveva sposato Ascenza d’Ignazio) e Giovanni (dopo la guerra diventerà il parroco di S. Anatolia: “don Giovani Di Gasbarro”).
  7. Spirito Rubeis nacque a Sant’Anatolia nel 1787. Era un personaggio influente e questo si evince dalla grande quantità di bambini (trentotto) a cui gli fu chiesto di fare da padrino di battesimo. La sua influenza si comprende anche dal fatto che la sua stirpe, quattro generazioni dopo si continuasse a chiamare con il suo nome. Sposò Maria Sofia Di Lorenzo (1792-1861) da cui ebbe nove figli. Morì nel 1863 a 76 anni. Lucrezia Rubeis (1935), figlia di Francesco e Anatolia D'Agostino, moglie di Erasmo Spera, detto Remo, discendente di Spirito, era una “de quissi de spiritigliu”.
  8. Zia Peppina è Giuseppa Luce (1899), figlia di Massimantonio e Anatolia Peduzzi, moglie di Pietro Luce (1894). Il marito era in Argentina e lei viveva con i suoi tre figli, Antonio, Mario e Maurizio.
  9. Angelo Sgrilletti (1905), figlio di Stefano e Domenica Spera, faceva il calzolaio.
  10. Alfredo Rubeis (1890), figlio di Berardino e Maria Arcangela Luce, soprannominato "l'Englese".
  11. Quintina Lanciotti (1920), figlia di Luigi (detto Luigione) e Anatolia Peduzzi (Natolietta)
  12. In un appunto inviatomi da Pierluigi Felli di Torano, risulta che, a differenza di quelle indicate da Angelo Amanzi, che ricordava il 7-8 dicembre, le date effettive dell'accerchiamento furono la notte tra il 17 e il 18 dicembre 1943 (ma noi chiaramente non pretendiamo la precisione nei ricordi di Angelo dopo così tanti anni dagli eventi accaduti!). Nello stesso documento risultano tre, e non quattro come ricordato dagli intervistati, i prigionieri inglesi catturati dai tedeschi. Forse erano tre inglesi ed uno di altra nazionalità? Di seguito quanto comunicatomi da Felli che ringrazio: "Il rastrellamento a Sant’Anatolia - come si legge nel rapporto redatto sull’accaduto a firma dal comandante del gruppo Carabinieri di Rieti - ci fu nella notte tra il 17 e 18 dicembre 1943 ad opera di militari tedeschi con il supporto di elementi della Guardia Nazionale Repubblicana e vennero catturati 3 prigionieri inglesi. Furono perquisite quasi tutte le case ed asportate in alcune di esse generi alimentari, vestiti ed utensili, come riportato nel verbale di dichiarazione danni di Scafati Edoardo fu Luigi e Lanciotti Luigi fu Bernardo (Fonte Archivio di Stato di Rieti).
  13. Vincenzo Rubeis (1909) detto Checia, figlio di Pasquale e Lucrezia Peduzzi, marito di Angela Spera.
  14. Maria (1934) e Vincenza Spera (1932), figlie di Pietrantonio e Luisa Luce.
  15. Luisa Lanciotti (1920), detta Gina in quanto abbreviativo di Luigina, era figlia di Giustino Lanciotti e America Scafati. Era fidanzata con il partigiano Mario Celio e dopo la morte di questi, sposò un certo Abramo di Avezzano.
  16. Le donne che morirono sotto la bomba furono Domenica Segreti (nativa di Castelmenardo, moglie di Franco Rosati) e Maria Scafati (di Giuseppe e Teresa Fabrizi).
  17. Nicolina Spera (1922) era la figlia di Filippo e Angela Luce, e moglie di Angelo Giampietri.
  18. La trincea era stata scavata in un terreno vicino alla casa di Vincenza e Maria. Il terreno oggi è di proprietà di Patrizia la figlia di Maria.