Un abruzzese a 7mila metri

Un abruzzese a 7mila metri

Quello che segue è il diario di viaggio di un abruzzese di 29 anni, Mario Placidi Spring, che ha esplorato alcune delle regioni più remote del pianeta, come come le steppe della Siberia e gli altopiani delle "sabanas" e dei "tepuy" in Venezuela, ma non ha mai perso il legame con le "sue" montagne: il Corno Grande e il Monte Velino. A raccogliere le cronache dei suoi viaggi è il blog vagabondingtheworld.com, dal quale sono tratti il testo e le fotografie che seguono. Mario Placidi Spring, nato a L'Aquila, è figlio di Filippo, figlio di Mario Placidi e Johanna Spring di Sant'Anatolia.

Sono passate ormai 2 settimane da quel 4 marzo 2013 quando, al culmine di un’avventura durata 13 giorni, ho posato i piedi sui 6962 metri del Cerro Aconcagua, il tetto deaconcagual Sud America.

In questi giorni ho cercato più volte di mettere su carta le emozioni e le esperienze di questa che è stata certamente la sfida più grande della mia vita, ma soltanto oggi trovo gli spunti e le riflessioni adatte a raccontare quella che è stata una vera e propria impresa in quanto è stata condotta in solitaria e in completa autonomia. Paradossalmente, però, quando rivivo quei giorni nella mia testa, i primi pensieri non vanno al raggiungimento della vetta, bensì agli eventi di uno dei primi giorni della spedizione, il giorno più duro, il 25 febbraio, il giorno del fallimento, ma al tempo stesso della voglia di rivincita. E’ in quel giorno che questa spedizione ha avuto successo.

Dal diario di spedizione:

"Camp Berlin, 26 febbraio 2013, Plaza de Mulas, campo base"

"Stremato, Sconvolto, Distrutto. Con soltanto il fiato per emettere qualche gemito, guadagno a gattoni, con un rampone in mano, l’uscio del capanno del Campamento Berlin a quota 6000 metri. Quella di ieri (25/02) è stata forse la giornata più dura della mia vita. Raggiunti i 6300 metri. Mancavano circa 700 metri di dislivello alla cima. Salivo a ritmo lentissimo ma regolare: un passo, due respiri – non ce la puoi fare, sì ce la puoi fare – un passo, due respiri... e così via con l’aria che diventava ad ogni passo verso l’alto più rarefatta e il fortissimo mal di testa e la nausea che prendevano il sopravvento sulla voglia di vetta.

Niente, non se ne fa niente. Basta. Raccolgo le ultime energie che mi rimangono e le uso per prendere la decisione più saggia della giornata: tornare sui miei passi e cercare di raggiungere il capanno del campamento Berlin.

Raggiungo il campo stremato e mi butto nel sacco a pelo tremando, non tanto per il freddo quanto per il malessere che ormai mi condiziona completamente. Da ormai 4 giorni non mangio che zuppette, il mio corpo non le accetta più e la sola cosa che posso ingerire è tè caldo. Ma anche sciogliere la neve, nelle condizioni in cui mi trovo è un’impresa al di sopra delle mie possibilità, così non mi resta che rimanere nel sacco a pelo, inerme.

 

Penso solo a chi me lo ha fatto fare, voglio solo tornare giù a Mendoza e mangiare un’insalatina di pomodori freschi insieme a Jasna: questo sarà un pensiero che non mi lascerà un minuto per tutta la notte.

Il russo, l’americano e il giapponese che erano partiti con me in mattinata, forti di un’acclimatamento migliore del mio, hanno raggiunto la vetta. La vetta: un concetto di cui ormai non mi interessa più nulla.

 

Sono troppo debole, questa sarà la mia seconda notte a 6000 metri, e poi mi è passata la voglia. Desidero solo una vita tranquilla, un ristorantino tra i monti d’Abruzzo e un’insalatina di pomodori freschi.

 

Basta: domani si scende e si va via."

Questa la giornata del 25 febbraio, quella che, si diceva, costituiva la sola finestra di bel tempo per tentare la vetta. Quella finestra che mi sono sentito in dovere di sfruttare sebbene il mio acclimatamento fosse ancora da migliorare, pena la possibilità di perdere ogni "chance" di conquistare la cima. Ma la montagna ha impartito la sua volontà: chi sbaglia e la sottovaluta paga. Punto.

E così me ne torno giù, con la coda tra le gambe, quasi in lacrime per la delusione di una sconfitta impietosa. Si vede che doveva andare così.

Un gran peccato perchè solo pochi giorni prima, durante il trekking di avvicinamento al campo base, il morale era alle stelle e le condizioni fisiche erano eccellenti come posso rivivere nelle pagine del diario.

"22 febbraio 2013, Plaza de Mulas, Campo base."

"Bellissima giornata iniziata con una lunga valle glaciale che consente di aggirare ad ovest l’Aconcagua e di raggiungere il suo versante nord-occidentale dove avrà luogo l’ascensione vera e propria.

 

Ho passato gran parte del tempo con Ivan, un alpinista solitario russo, ma ho trascorso anche bellissimi momenti in completa solitudine nei quali mi sono sentito il Mario di un tempo che andava saltellando da una cima all’altra del Gran Sasso.

Con circa 35 chilometri di sviluppo, quella odierna è stata una tappa decisamente lunga ma priva di reali difficoltà. Arrivato ai 4350 metri di Plaza de Mulas freschissimo e senza affanno. Oggi ho riflettuto che, sebbene su queste cime possa raggiungere i miei limiti, è alle vette d’Abruzzo che appartengo totalmente. Penso a mio padre che mi portava sul Gran Sasso e sul Velino. E penso che a quei tempi devo tutto. Le previsioni danno una finestra di bel tempo nella zona sommitale tra 3 giorni quindi dovrò tentare sebbene temo che il mio acclimatamento, maturato sul Cerro Plata, non sia ancora sufficiente. Però mi sento forte. Ce la farò."

Il giorno successivo (23 febbraio) raggiungo il Campo 2, Nido de Condores a 5400 metri. Il luogo è battuto da venti di circa 100 chilometri orari che rendono difficoltosa anche l’operazione più elementare. Montare la tenda, fare pipì, trovare la bottiglia dell’acqua e fare in modo che non geli sono operazioni che richiedono da pensare e che bisogna pianificare adeguatamente. Sono entrato nella tendina squassata dal vento alle 15 e vi sono rimasto fino alle 7 del mattino successivo sopportando temperature di circa -20°C e rigirandomi in continuazione in cerca di una pace che non esisteva. A tratti ero certo che il vento avrebbe strappato via la tenda e così tiravo le braccia fuori del sacco a pelo per mantenere stabile la struttura. Nonostante tutto al mattino mi sono sentito decentemente in forze da superare i 600 metri di dislivello che separano "Nido de Condores" dal campo 3, "Camp Berlin". Il giorno dopo sarà il "summit bid", l’assalto alla vetta, ma già ho descritto come è andata.

L’Aconcagua mi farà pagare un caro prezzo per averla sottovalutata. Quella seconda notte d’inferno a 6000 metri, dopo la disfatta, trascorre contando i secondi. Colpo di tosse, mi rigiro, ho fame . . . quell’insalatina di pomodori freschi, bevo un sorso d’acqua per scongiurare la possibilità di un edema. Talvolta, in qualche parentesi di pace, riesco anche a pensare. Penso che sia giusto cercare di superare i propri limiti ma al tempo stesso bisogna capire di averli raggiunti e tornare alle vecchie camminatelle che tanto ci facevano felici. Penso anche all’eterno dilemma dell’alpinismo, ovvero: perchè, perchè soffrire tanto per raggiungere la cima di una montagna che in fin dei conti non è che un ammasso di pietre una sull’altra?

Quando, nel 1921, alla vigilia di uno dei primi tentativi di scalata dell’Everest, venne posta a George Mallory questa domanda, egli rispose semplicemente “perchè è lì”, in quanto probabilmente non aveva una risposta più esauriente. Io non ho una risposta più soddisfacente, ma in quella notte mi sono convinto che c’è solo una ragione al mondo per cui si può scegliere di vivere una tale situazione: l’amore. Un amore che non ho idea di come descrivere, ma che invade tutto il mio corpo alla semplice vista di un ammasso di pietre una sull’altra.

Disceso al campo base mi fermo a parlare con i membri di una spedizione i quali mi informano che tenteranno la vetta la settimana successiva quando, secondo le previsioni, ci saranno un paio di giorni di tempo buono. Vado nella tenda della stazione meteorologica e in effetti mi viene confermato che per tutta la settimana ci saranno venti fino a 120 km/h con temperature nelle zone sommitali di -45°C ma che per il 4/5 marzo questi dovrebbero placarsi dando luogo ad una buona finestra di bel tempo per tentare la vetta una seconda volta.

Vado a montare la mia tendina e mi infilo nel sacco a pelo, ancora scosso per le disavventure del giorno precedente. Penso alle terribili notti trascorse a 6000 metri, penso alla voglia di una bella cenetta tranquilla nel centro di Mendoza, penso alla stanchezza che mi invade completamente. Poi penso a questa montagna, l’Aconcagua, "la sentinella di pietra", penso a tutto il tempo e ai sacrifici che vi ho dedicato, penso a mia moglie Jasna e a tutti gli amici che mi hanno incoraggiato in questo cammino; penso alle mille giornate trascorse con mio padre, in tempi remoti, sulle vette del Gran Sasso e del Velino, penso all’amore per quelle montagne d’Abruzzo e a ciò che mi hanno insegnato, alle mille difficoltà che mi hanno fatto superare e infine penso a qualcosa di intangibile. Penso all’Amore: quell’Amore che non sono riuscito a definire prima, quell’Amore che soltanto i "viaggiatori in verticale" come gli alpinisti hanno sperimentato. Penso a tutto questo e a molto altro e, nel giro di qualche minuto,il cuore infranto è tornato a pulsare, il cielo è tornato azzurro, la passione è tornata ad ardere.

L’avventura sull’Aconcagua era tutt’altro che finita.

I giorni seguenti trascorrono nel relax e nell’attesa al campo base. Il giorno 28 febbraio stabilisco il piano per un secondo tentativo.

"28 febbraio 2013, Plaza de Mulas, Campo Base (4350 metri).

 

Giornata di estremo relax a Plaza de Mulas. Molto vento (avvistato il famoso "viento blanco" dell’Aconcagua, famoso per essere portatore di grandi tempeste). Fatta passeggiata fino al ghiacciaio di Penitentes. Finalmente sono riuscito a mangiare un pò di pasta. Mi sento già molto meglio e non vedo l’ora di tornare in quota. Controllate previsioni del tempo aggiornate e stilato il seguente programma:

 

  • 01/03 (domani): Vento forte - riposo campo base
  • 02/03: Vento forte in diminuzione: Salire al campo 1 (camp Alaska-5200 m-, più protetto dal vento che il campo 2, Nido de condores)
  • 03/03: Vento moderato: Salire al campo 3 (Camp Berlin-6000m)
  • 04/03:Vento moderato in diminuzione: Vetta e ritorno al Camp Berlin
  • 05/03: Vento debole in mattinata, forte dal pomeriggio: giorno extra per vetta o discesa."

 

Lascio al diario raccontare i giorni seguenti.

"2 marzo 2013, Camp Alaska, 5200 metri.

 

Salito a Camp Alaska, 1000 metri di dislivello, meno ventoso che Nido de Condores. Arrivato con affanno, ma tutto sommato bene. No problemi di altitudine. Incontrato a 4900 i membri di una spedizione internazionale che tenteranno la vetta il 5, un giorno dopo di me. Tra loro 2 sudafricani molto simpatici e un francese. Mi dicono che ci sarà meno vento in mattinata il 5, ma io ribatto che non voglio rischiare il ritorno delle fortissime raffiche previste per il 5 pomeriggio e per questo motivo salirò il 4.

 

3 Marzo 2013, Camp Berlin, 6000 metri.

 

Salito senza problemi. Quota no problem. Montagna solo mia, non c’è nessun altro. Bella giornata. In serata molte nuvole. Speriamo passino per domani.

 

4 Marzo 2013, Summit Day!.

 

Cumbre! Partito alle 5.30 dal capanno del campamento Berlin con cielo terso. Freddo intenso tutto il giorno. Dita dei piedi da muovere in continuazione per evitare il congelamento. I primi 400 metri di dislivello, fino all’ex rifugio Indipendencia sono volati rapidamente e senza affanno nella placida tranquillità della notte. Supero il pendio oltre il rifugio e, quasi inaspettatamente, mi ritrovo all’inizio del traverso che porta alla base della "Canaleta", tutto troppo facile. Sono appena le 8.30 e sono già a 6500 metri. Fantastico!

 

Mi sento forte, pieno di energie, mi sento parte della montagna stessa. Sono l’unico essere umano al di sopra dei 6000 metri quest’oggi. Le altre spedizioni hanno preferito attendere un giorno per il summit day in quanto il vento domani dovrebbe abbassarsi. Io ho preferito tentare oggi. Non ho voluto perdere l’opportunità nel caso i forti venti previsti già dal pomeriggio di domani dovessero riaffiorare prima del previsto. E così mi ritrovo solo, ad affrontare la montagna più alta del Sud America.

 

Guardo la cima dalla base della "Canaleta", solo 300 metri più in alto. 300 metri infiniti in cui ogni passo bisogna guadagnarselo con ben 5 profondi respiri.

 

Supero la prima metà della "Canaleta" egregiamente sfruttando una rampa di ghiaccio sui 40 gradi di inclinazione. La metà superiore è tutt’altra cosa. Siamo già a 6800 metri. Si sfrutta qualche piccola lingua di neve per evitare di salire tra le ghiaie, ma la vetta sembra davvero non avvicinarsi mai data la lentezza del procedere.

 

Più volte mi piego quasi a terra a causa del freddo, del vento o semplicemente dello sfinimento i cui effetti aumentano esponenzialmente sopra i 6600 metri. Ma ormai sono troppo vicino e non esiste ragione al mondo per cui rinuncerei. Mi affaccio finalmente sulla cresta sommitale e scopro la vertiginosa parete sud. Mancano poche centinaia di metri che durano un’eternità. Una rampa di neve mi conduce sotto una paretina. Supero la paretina con facile arrampicata pensando a quanto ci sarà da camminare per raggiungere la vetta. E invece, al di là della paretina mi rendo conto che non ci sono più ostacoli, non più un metro da salire. Solo cielo tutt’intorno. Sì, non c’è dubbio. Sono le 15.03 del 4 marzo 2013 e sono sul tetto d’America!"

La discesa filerà liscia e veloce fino al Camp Berlin dove incontro i sudafricani e il francese che tenteranno la vetta l’indomani. Purtroppo per loro i forti venti

previsti per il pomeriggio non si lasceranno attendere e l’alpinista francese perderà la vita scaraventato contro una roccia da una raffica di vento durante la discesa. A lui, al coraggioso Daniel Jeanot, un uomo perito mentre realizzava un sogno, va l’ultimo pensiero di questa avventura.

Adesso si volta pagina, un pò diverso, un pò lo stesso di prima, con il Gran Sasso nel cuore e il prossimo dei seven summit nella mente: il ciclo è destinato a ripetersi. E’ l’Amore e nessuno lo può fermare.

Mario Placidi Spring

Tratto da: www.ilcapoluogo.it